Donne pedofile: caratteristiche della pedofilia femminile

 

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Il termine “pedofilia” è ormai talmente tanto entrato nel gergo comune che non avrebbe bisogno di essere spiegato. In realtà, quando si parla di questo fenomeno si è portati a far riferimento esclusivamente all’uomo che abusa di un minore, mentre si fa più fatica a pensare che quegli abusi possano essere commessi da una donna. La figura femminile è da sempre vista come il porto sicuro in cui un bambino o minore che sia possa rifugiarsi, una persona da cui non potersi aspettare mai del male. I fatti, però, dimostrano il contrario: la pedofilia femminile esiste ed ha differenze significative rispetto a quella maschile.

Innanzitutto, bisogna partire dal definire la figura del pedofilo (parliamo qui di quelli che si riconoscono e chiedono aiuto), termine con cui non si designa solo colui che abusa attivamente di un minore (in questo caso parliamo più propriamente di “abuso sessuale su minore”) ma anche colui che ha semplicemente delle fantasie sul minore stesso che, però, poi non mette in atto. All’ambito della pedofilia appartiene anche la “pederastia”, fenomeno in cui un adulto instaura relazioni omosessuali con un minore all’inizio della pubertà; il “lolitismo”, ovvero l’attrazione di un adulto per una ragazza non ancora maggiorenne.

A conclusione di questa elencazione dei vari termini “pedofilici” troviamo quello di child molester, definito da Picozzi e Maggi (2003), “un individuo adulto che si intrattiene in attività sessuali illecite con minori, indipendentemente dal sesso, dall’unicità o ripetitività degli atti, dalla presenza o assenza di condotte violente; se la vittima sia pubere o prepubere, conosciuta o meno, legata o meno da vincoli di parentela con l’aggressore”. Il child molester poi, a differenza del pedofilo, che prova attrazione sessuale nei confronti del minore, può anche avere rapporti sessuali esclusivamente per curiosità o necessità con un soggetto di età prepuberale o puberale, ma mantenere le sue preferenze sessuali per gli adulti.

In termini di incidenza, possiamo dire che ogni 3 abusi maschili ce ne sarebbe uno di tipo femminile. In particolare, dall’ultimo rapporto americano del National Center for Missing and Exploited Children (2008), su un campione di 731.584 bambini maltrattati, il 65% ha subito atteggiamenti negligenti da parte dei genitori, il 10% abusi di tipo fisico e il 2,3% abuso sessuale.  Il 58% degli offenders è di sesso femminile con due range d’età 20-29 (41,3%) e 30-39 (36,7%) contro il 42,1% degli uomini in tre range d’età 20-29 (28,9%), 30-39 (36,2%) e 40-49 (21,3%). Interessante è anche l’alta percentuale di presenza di pedofilia femminile all’interno dei rituali satanici.

Dal punto di vista diagnostico, il DSM V introduce modifiche nei criteri di individuazione della pedofilia rispetto al DSM IV-TR. Innanzitutto, introduce il concetto di “disturbo parafilico” quando, non solo viene soddisfatto il Criterio A per la pedofilia (fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti e intensamente eccitanti sessualmente), ma anche il Criterio B (gli impulsi o le fantasie sessuali causano considerevole disagio o difficoltà interpersonali). Nel caso in cui sia soddisfatto il solo Criterio A si parla semplicemente di “pedofilia”. Non poche sono le variazioni apportate: l’età della vittima si è innalzata da 13 a 15 anni perché viene presa in considerazione anche la diagnosi di efebofilia (attrazione per bambini di età compresa tra 11 e 14 anni), oltre a quella di pedofilia (attrazione per bambini di età inferiore agli 11 anni) e a quella di pedoefebofilia (attrazione sia per bambini che per prepuberi); il Criterio B è più chiaro ed esaustivo poiché “soggetto che manifesta attrazione sessuale per un minore” non viene definito solo colui che mette in atto comportamenti pedofili o che ha semplicemente fantasie sessuali verso minori, ma anche colui che vive male i suoi impulsi e colui che non mette in atto comportamenti pedofili, né si sente a disagio con se stesso, ma viene danneggiato nella sua persona a causa delle conseguenze sociali derivati dalla sua patologia.

Ma cos’è la pedofilia femminile? Quali sono le sue cause? Quali le sue conseguenze?

Kaplan (1991) ha definito le donne “perverse tanto quanto gli uomini”; rispetto a questi, però, esse sembrano avere nella loro storia personale una maggiore incidenza di storie di incesto, una maggiore familiarità psichiatrica e legata all’alcolismo e frequenti vissuti emotivi da single. In quasi tutte le storie di pedofili, che siano essi maschi o femmine, ricorre spesso il ciclo abusante-abusato, che crea un forte sentimento di paura per quello che hanno vissuto nel loro passato insieme ad un sentimento di rabbia per non essersi saputi difendere. Divenuti adulti, però, possono spostare questa rabbia su terzi per vendicarsi del male subito. Questo “meccanismo di difesa” viene definito da Stoller (1975) “odio erotizzato”, in cui attraverso la perversione sessuale il soggetto scarica in realtà rabbia e rancore nei confronti di un passato traumatizzante.

A differenza dell’uomo, poi, la donna trascorre molto più tempo con il bambino, soprattutto nella fascia d’età che va dalla nascita fino ai 3 anni di vita; ed è per questo motivo che spesso la pedofilia femminile trova maggiori “mascheramenti”, quali bidet prolungati, bagnetti frequenti dove le mani sostano sui genitali per molto tempo, bagni madre-figlio insieme nudi. Una forma particolare di pedofilia, tutta al femminile, viene chiamata “prepedofilia”, in cui la donna non è direttamente parte attiva negli abusi su un minore, ma è complice di una terza persona, generalmente il marito o compagno. Si tratta di donne fortemente dipendenti, completamente assenti nel loro ruolo di madri e mogli, che hanno paura di perdere il loro partner. A volte, sono proprio queste donne che, quando si rendono conto che l’interesse sessuale da parte del loro partner nei loro confronti è scemato, suggeriscono inconsciamente una relazione “sostitutiva” con la figlia. Una madre, di fronte ad un abuso subito dal figlio, può reagire come “madre complice”, ossia connivente con l’abusatore; o “madre assente”, ovvero colei che non è riuscita a stabilire più di tanto un rapporto amorevole con i figli e quindi non si sente toccata più di tanto.

Petrone (2005) definisce tre tipologie di donna/madre prepedofila:

  1. la madre che collude, colei che sacrifica i propri figli al carnefice;
  2. la donna che dipende, colei che è sottomessa completamente al partner;
  3. la donna vittima, colei che è stata a sua volta vittima di abusi durante l’infanzia.

Sulla base delle reazioni di fronte all’abuso dei figli da parte di un altro familiare, le donne vengono classificate in:

  1. madre molto protettiva, difende il figlio e tronca la relazione con il partner;
  2. madre poco protettiva, non si accorge o non vuole accorgersi dell’abuso che subisce il figlio;
  3. madre ambivalente, si accorge dell’abuso, vorrebbe intervenire, ma poi minimizza il tutto per non rovinare la coppia e la famiglia.

Per la donna l’obiettivo primario del suo comportamento parafilico non è quello di danneggiare l’altro, ma quello di danneggiare se stessa attraverso l’altro. Inoltre, nella storia personale si ritrova un rapporto distorto con la figura materna, ma, laddove l’uomo riesce in qualche modo a reagire magari rifacendosi con un’altra figura femminile, la donna interiorizza la madre odiata nel proprio corpo femminile e si identifica con essa. Queste donne quindi trattano le loro vittime nello stesso modo in cui sono state trattate loro stesse da bambine.
La donna perversa scarica la sua pulsione sessuale sul bambino non solo attraverso l’organo genitale, come fa generalmente l’uomo, ma coinvolgendo tutto il corpo poiché per la donna la sessualità è legata a tutta la sua persona.

In conclusione, le conseguenze sul bambino. E’ risaputo, grazie a numerose ricerche sullo sviluppo del minore, che il suo cervello continua la sua formazione anche dopo la nascita. Lorenz (1949) infatti parla di imprinting, un processo attraverso cui il cervello del bambino si forma a partire dalle stimolazioni ambientali che riceve. Si comprende dunque da sé che più precoce è l’età in cui il bambino subisce l’abuso, più gravi saranno le conseguenze a livello fisico, emotivo e psicologico. Inoltre, i danni provocati da una madre abusante sono molto più gravi rispetto a quelli derivati dall’abuso paterno. Il bambino infatti può, nel primo caso, andare incontro ad una vera e propria psicosi poiché non comprende il doppio volto della madre che è colei che gli ha dato la vita, ma che in realtà gli fa del male, ponendosi come il suo peggior nemico.

Maria Esposito12243400_10205091504222961_3122580699711441493_n

Info

 

 

Bibliografia

Quattrini F. (2005), Parafilie e devianza. Psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale atipico, Giunti Editore.

Picozzi M., Maggi M. (2003), Pedofilia. Non chiamatelo amore, Guerini e Associati.

Petrone L. (2010), E se l’orco fosse lei? Strumenti per l’analisi, la valutazione e la prevenzione dell’abuso al femminile, Franco Angeli.

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