Lo spettacolo del confine: dal palcoscenico dell’esclusione all’osceno dell’inclusione.

 

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Immagine di Sergio Apolinar 

«I Paesi sono separati gli uni dagli altri da frontiere. Oltrepassare una frontiera ha sempre qualcosa di commovente: un limite immaginario, materializzato da una barriera di legno che tra l’altro non è mai proprio sulla linea che dovrebbe rappresentare, ma a qualche decina o centinaia di metri al di qua o al di là, basta per cambiare tutto, perfino il paesaggio stesso: è la stessa aria, la stessa terra, ma la strada non è più esattamente uguale, la grafia dei cartelli stradali cambia, le panetterie non corrispondono più esattamente a quello che, ancora un attimo prima, chiamavamo panetteria; il pane non ha più la stessa forma, non si vedono più gli stessi pacchetti vuoti di sigarette, qua e là per terra (…). Le frontiere sono linee. Milioni di uomini sono morti a causa di queste linee. Migliaia di uomini sono morti perché non sono riusciti a oltrepassarle: la sopravvivenza era allora legata al superamento di un semplice fiumicello, d’una collinetta, d’un bosco tranquillo: dall’altro lato, la Svizzera, il paese neutrale, la zona libera» [Perec, 1989:87-88].

Con queste parole Georges Perec, geniale scrittore francese esponente dell’Oulipo1 e grande appassionato di antropologia, descriveva negli anni’70 la sensazione straniante che si prova ogni volta che si valica un confine. Il cambiamento di paesaggio, lingua, moneta e costumi rimandano all’idea del confine come linea di separazione di due territori geografici, ma soprattutto di due entità nazionali, due gruppi in qualche modo differenti, una demarcazione tra “noi” e gli “altri”. I confini e le frontiere sono presenti all’attenzione pubblica da molto tempo e in maniera imponente: che siano stati la Cortina di Ferro, la Demilitarized Zone tra Corea del Nord e Corea del Sud, il Limes dell’impero Romano o la frontiera del West americano, i confini hanno sempre significato una più o meno netta divisione tra “qui” e “là”, interno ed esterno, noi e loro, e sono serviti dovunque come strumenti di demarcazione e controllo (cfr. Casas-Cortes 2014; Remotti 1990).

Attraverso questa semplice fenomenologia si rischia però di considerare come oggettive alcune differenze che sono invece prodotte da un transito continuo di persone, oggetti ed immaginari. Lungi dal separare due o più realtà isolate e reciprocamente incommensurabili, come invece suggeriva la metafora del “mosaico di culture2” che ha attraversato gran parte della tradizione antropologica della prima metà del Novecento, i confini si presentano come costruzioni impermeabili.

A fine anni Sessanta Frederik Barth, antropologo norvegese di scuola britannica, riformulò il campo degli studi sull’etnicità proponendo di mettere l’accento proprio sul confine e non sul materiale culturale che esso effettivamente racchiude. Il confine sembra essere più una causa che una conseguenza delle differenze culturali: «L’esistenza di un confine consente di incanalare la vita sociale. La sua esistenza segnala a tutti coloro che sono parte del gruppo etnico, che “si sta giocando allo stesso gioco”» [Fabietti 2013:125]. Se, come Barth suggerisce, le differenze non dipendono dall’isolamento, allora anche il contatto tra gruppi sociali portatori di valori differenti non si risolve necessariamente nell’assimilazione di uno di questi da parte di un altro. Le differenze possono persistere nonostante l’interazione (cfr. Barth 1969). Basti pensare alle barriere doganali deserte dell’Europa continentale che, nonostante la loro abolizione in virtù degli accordi di Schengen in vigore dal 1993, rimangono tuttora a testimonianza di zone di frontiera mai completamente dimenticate ma anzi, come ci indica la storia contemporanea, pronte in ogni momento ad essere riattivate.

Se un’aumentata permeabilità dei confini non ha portato al loro totale abbandono è forse perché le distinzioni culturali non dipendono affatto dall’isolamento dei gruppi all’interno dei “sacri confini” delle nazioni, ma da una molteplicità di fattori anche di tipo politico ed economico. Il 9 Novembre 1989, l’Europa celebrava la caduta del muro di Berlino e l’inizio di una nuova era di unità e libertà di movimento; oggi, durante la settimana dal 9 al 15 Novembre 2015, la Svezia ha ristabilito i controlli alla frontiera con la Danimarca, la Germania ha reintrodotto le norme del trattato di Dublino (che impone la dislocazione dei profughi richiedenti asilo nello stato di primo ingresso in Europa) e la Slovenia ha iniziato la costruzione di un muro sul confine con la Croazia. Non da ultimo, in seguito ai sanguinosi attentati di Parigi del 13 novembre, la Francia ha dichiarato lo stato d’emergenza e ha militarizzato i confini per prevenire fughe ed arrivi di potenziali terroristi. In una sorta di effetto a catena, si prospettano per tutti gli stati europei delle riduzioni drastiche nelle libertà di movimento e un deciso rafforzamento dei controlli di sicurezza in ogni zona di transito.

Si sta assistendo alla ricomparsa di un confine interno allo “spazio Schengen” sempre più fortificato, alla moltiplicazione di muri che scandiscono il tempo della “crisi dei migranti” ed i confini esterni dell’Europa; e queste immagini non possono che farci riflettere sulla crisi istituzionale del progetto europeo di integrazione e libertà di movimento: «La chiusura delle frontiere non può che configurarsi come una reazione a catena» (Mezzadra, 2015). 

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Immagine “Berlin Wall” di John Antono 

Ma qual è, nello specifico, il rapporto tra confini e migrazione? L’antropologo americano Nicholas De Genova ha provato a dare una risposta sottolineando un aspetto importante del ruolo del confine nella descrizione di quello che chiama “Border Spectacle”, termine che conia prendendo le mosse dalle analisi di Foucault sulla governamentalità e di Debord sulla Società dello Spettacolo. Per usare le parole dello stesso autore: «la peculiare performatività teatrale del controllo dei confini e dell’applicazione delle leggi sull’immigrazione fornisce perennemente una scena feticizzata di “esclusione”, che non cessa di mascherare (ma anche di rivelare selettivamente) ciò che chiamo l’“osceno” dell’inclusione dei migranti come forza lavoro (subordinata, illegalizzata), e che contemporaneamente reifica in modo sistematico l’“illegalità” del migrante come un problema di trasgressione dei confini, dissimulando così la produzione legale dell’“illegalità” del migrante» [De Genova 2013b:168].

Peculiare di questo spettacolo è la selettività dei suoi riflettori: il carattere di clandestinità viene impresso solo su alcuni corpi e su certi flussi migratori, mentre altri sono marcati come legali, professionali, studenti, ammissibili. In questo processo la migrazione è resa governabile, la produzione di illegalità è resa legale. La presenza imponente dello Stato lungo i propri confini è quindi una performance in cui l’attribuzione di clandesitinità, insieme ad altre tecniche e dispositivi (l’attesa, la detenzione, il riconoscimento biometrico, il respingimento, le documentazioni mancanti, le interviste etc…) agisce per gestire e amministrare il transito delle persone (cfr. Casas-Cortes 2014). Linguaggio ed immagini, testi e sottotesti, accuse ed insinuazioni, come pure una ridondante grammatica visuale, costituiscono il fondamento di questo spettacolo e contribuiscono all’oggettivazione dello statuto di illegalità del migrante, possibile anche e soprattutto tramite la cecità nei confronti di tutte quelle revisioni e modifiche che sono alla base delle leggi sull’immigrazione (“la produzione legale dell’illegalità”). L’enfasi posta dai governi sui confini, interpretati come il luogo di atti sovrani di decisione e di eccezione (come nei casi sopracitati di sospensione degli accordi di Schengen) e la loro spettacolarizzazione fatta di preoccupazioni per la sicurezza, raids, detenzioni e deportazioni, secondo De Genova, accompagnano in maniera complementare la banalità dell’inclusione tacita e invisibile di una forza lavoro subordinata, precaria e ricattabile.

Secondo questa analisi, le migrazioni stesse sono costitutive dei confini in quanto li sfidano, oltrepassano e provocano un loro rimodellamento e protezione da parte degli attori statali. Dal punto di vista dello Stato, la migrazione è un “eccesso” che deve essere continuamente ridimensionato, controllato e governato da provvedimenti politici che invocano il confine come stabile e perennemente sotto controllo, il tutto, in definitiva, in vista di una inclusione selettiva.
Ciò forse non è valido per ogni confine, ma i confini che stanno riacquisendo sempre più vigore e visibilità nell’Europa del 2015 costituiscono una delle tecnologie predominanti per la gestione della mobilità delle popolazioni e per la loro catalogazione come intrinsecamente diverse nell’ampia categoria di “migranti”. Una prospettiva che invece pensi ai confini come spazi politici, economici, sociali e culturali, oggetto di tensioni, contestazioni e conflitti permetterà forse di superare questa rigida distinzione e di prendere in considerazione il carattere arbitrario e instabile di ogni confine (cfr. Casas-Cortes 2014).

E’ lecito forse domandarsi, a questo punto, quanto i confini siano da considerarsi i limiti convenzionali di legislazioni, amministrazioni e percezioni spaziali degli abitanti di un contesto, piuttosto che frutto di una datità naturale che permette di definire ciò che è altro, diverso, esterno e quindi nemico per la sua semplice estraneità.

Fosco Bugoni

Info

 

 

 

1Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero “officina di letteratura potenziale”, collettivo di scrittori, filosofi e matematici attivo a Parigi negli anni ’60-’70, fondato nel 1960 da Raymond Queneau e François Le Lionnais. Tra gli esponenti di spicco, oltre ai già accennati Perec e Queneau, anche Italo Calvino, Marcel Duchamp e Jacques Roubaud.

2Prospettiva in auge nella scuola struttural-funzionalista britannica tra il 1930-50 che postulava, a scopo di analisi, la staticità dei sistemi culturali, pensati appunto come degli isolati in equilibrio. Il mosaico fa delle culture «una specie di contenitori chiusi in cui sarebbero riposte le “tradizioni autentiche” di una comunità, di un popolo o di una nazione» (Fabietti 2013: 24)

Bibliografia

Barth, F., Ethnic groups and boundaries, Little Brown, New York, 1969

Casas-Cortes, M., Cobarrubias, S., De Genova, N., Garelli, G., Grappi, G., Heller, C., Hess, S., Kasparek, B., Mezzadra, S., Neilson, B., Peano, I., Pezzani, L., Pickles, J., Rahola, F., Riedner, L., Scheel, S. e Tazzioli, M., New Keywords: Migration and Borders. Cultural Studies, 29(1), 2014

De Genova, N., Spectacles of migrant ‘illegality’: the scene of exclusion, the obscene of inclusion. Ethnic and Racial Studies, 36(7), 2013

Fabietti, U., L’identità̀ etnica, Roma, Carocci, 2013

Perec, G., Specie di spazi. Torino, Bollati Boringhieri, 1989

Remotti, F., Noi, primitivi. Torino, Bollati Boringhieri, 1990

Sitografia

Mezzadra S. (2015), Europa: ce la facciamo?, consultabile in : http://www.euronomade.info/?p=6053

(2013b) Forum: “Foucault, Migrations, Borders” Responses by Nicholas De Genova, Brett Neilson, and William Walters. Materialifoucaultiani.org, (2015). Volume II, numero 3, consultabile in : http://www.materialifoucaultiani.org/it/rivista/volume-ii-numero-3.html

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