Come abbiamo perso la capacità di morire

La morte. Per San Giovanni è il quarto cavaliere dell’Apocalisse, l’ultimo degli atroci flagelli che da sempre tormentano l’umanità: «Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’inferno» [Apocalisse 6.8].

E’ evidente che la morte ci spaventa, in lei si cela forse l’unico enigma destinato a rimanere insoluto; qualcosa che né tecnica né razionalità ci permettono di chiarire. E’ un arcano che ci attrae morbosamente e probabilmente proprio per il terrore che genera in noi. Per Robert Hertz [1978] la morte distrugge completamente l’essere sociale che il defunto andava a costituire. Essa, infatti, recide il vincolo tra individuo e gruppo di appartenenza, vincolo imprescindibile al fine di creare una propria identità. E’ quindi un serio pericolo per la coesione del gruppo sociale che per tutelarsi ristabilisce l’equilibrio elaborando specifici rituali: i rituali funebri che danno la possibilità di iscrivere la morte all’interno di una prospettiva di senso.

E’ fondamentale che la cultura di appartenenza sia efficace nel fornire spiegazioni inerentemente a questioni cardine dell’esistenza che da sempre angosciano l’uomo.

Hertz arriva a concepire questi riti come dei riti di passaggio ovvero atti a favorire la transizione tra uno stato e l’altro; il defunto, infatti, attraverso le esequie abbandona la comunità dei vivi e fa il suo ingresso in quella dei morti rimanendo quindi nel gruppo sociale di appartenenza ma venendo solamente incluso in un’altra comunità di questo. Il defunto quindi semplicemente passa da una condizione sociale ad un’altra, entra a far parte di quella che altro non è che la prosecuzione della comunità dei vivi: la comunità dei morti. Gli studi di Hertz prendono il via da specifici rituali in uso presso alcune popolazioni del Borneo, in particolare quella della “seconda sepoltura” in cui appunto le inumazioni erano due. la seconda, oltre a prevedere un rituale molto più solenne, prevedeva che i resti del defunto trovassero una collocazione definitiva. Era per l’autore proprio questa seconda fase del rituale a sancire l’ingresso nella comunità dei defunti. 

Anche Søren Kierkegaard vede nella morte qualcosa che turba l’uomo e ne scuote l’animo nel profondo, tuttavia per il filosofo danese questo profondo turbamento ci offra una possibilità irripetibile. Egli, infatti, ritiene che la morte, anzi il pensiero di essa, sia l’unica cosa in grado di destare l’uomo dal suo torpore spirituale. L’angoscia derivante da tale pensiero sarebbe motore di tutta l’esistenza umana ed è paradossale come questa idea di morte talmente dolorosa sembri in realtà imprimere un vitalismo senza pari alla condizione umana [cfr Penzo, 2000].                                                                                             

Tuttavia sembra che tale timore reverenziale nei confronti della morte non sia necessariamente proprio della natura umana.

Secondo diversi autori c’è stato un tempo in cui la Morte, se non altro in Europa, non sembrava subire alcun tipo di stigmatizzazione. E’ il caso del sociologo francese Philippe Aries che nel suo “Storia della morte in Occidente” (1975) traccia una panoramica di com’è cambiato il rapporto di noi occidentali con la morte dal Medioevo ad oggi, arrivando così a mostrarci chiaramente come l’attuale angoscia collettiva nei suoi confronti non sia cosa né naturale né tantomeno sana. 

Aries rileva quattro diversi approcci alla Morte negli ultimi mille anni e quindi altrettanti periodi: 

  • Nella prima fase, ovvero il primo Medioevo, assistiamo alla cosiddetta morte «addomesticata» [Aries, 2017:7], nella quale il trapasso era qualcosa di accettato e quotidiano, che non suscitava particolari manifestazioni emotive. All’epoca, infatti, si riteneva che la salvezza o la dannazione eterna sarebbero state decise sulla base della tumulazione o meno della salma in terra consacrata quindi sia per il defunto che per i familiari l’unico aspetto davvero importante era che la sepoltura avvenisse in una struttura ecclesiastica.
  • Secondariamente Aries ci parla della «morte di sé» [Ivi, p.34], è in questa fase che inizia a paventarsi il timore del giudizio divino. Ciò è dovuto al fatto che se prima si riteneva che il Giudizio sarebbe avvenuto alla fine dei tempi ora, XV-XVI secolo, si afferma la convinzione che avvenga al momento del decesso, pertanto diviene fondamentale morire in modo retto. Riprova di ciò è il fiorire di rappresentazioni raffiguranti il morente circondato da angeli e diavoli intenti a contendersi la sua anima. La morte quindi riprende a essere uno spazio in cui la dimensione individuale prevarica quella collettiva. 
  • Nel XVII secolo la morte diviene un momento tristemente drammatico. I familiari ormai non sono altro che spettatori, meri esecutori degli atti testamentari. Il morente stesso perde di centralità e di potere decisionale. E’ il momento in cui il cadavere diviene qualcosa di problematico, in particolare dal punto di vista igienico, e conseguentemente i cimiteri vengono allontanati dalle città. La morte diviene progressivamente sempre più incresciosa e difficile da superare e l’autore ci parla di «morte dell’altro» [Ivi, p.50] che appunto non riguarda più un generico “altro” ma un individuo con una propria soggettività. E’ la fase in cui il dolore della perdita diviene via via sempre più struggente e difficile da accettare.
  • Infine il 19° secolo è il periodo della «morte proibita» [Ivi, p.68] in cui il trapasso viene occultato in ogni modo possibile e nemmeno il morente è informato della reale situazione. Ora la tendenza è quella di fingere che il decesso sia ancora molto lontano ed evitare che questo avvenga nei luoghi della quotidianità. La morte viene diluita in tanti piccoli momenti come il ricovero ospedaliero o la perdita di coscienza così che quando essa realmente avviene non desta più nessun scalpore. E’ inoltre obbligo dei congiunti non palesare eccessivamente il lutto in quanto il cordoglio è d’intralcio allo scorrere della vita e della socialità nei suoi canali di ordinarietà. Si tende a nascondere sempre di più la morte e a relegarla in uno spazio privato. 

E’ evidente come l’ultimo atteggiamento sia in realtà piuttosto problematico: rende il lutto un tabù e condanna chi lo vive all’isolamento [cfr Aries, 2017]. Il primo a notare questa patologizzazione della morte è stato l’antropologo inglese Geoffrey Gorer che in un articolo del 1955 rileva un parallelismo tra pornografia e morte. Se un tempo, infatti, era la pornografia ad essere un argomento assolutamente interdetto ora questa sta andando incontro ad una sempre maggiore liberalizzazione mentre invece la morte, da sempre onnipresente nelle rappresentazioni culturali umane, stia diventando progressivamente un tabù subendo stigmi simili a quelli un tempo destinati alla pornografia.

L’oscenità infatti è trasversale a tutte le culture, tuttavia i contenuti di questa sono assolutamente variabili: ad esempio presso le Isole Trobriand, un arcipelago della Nuova Guinea, sono i fatti inerenti alla nutrizione ad essere causa di imbarazzo. Ebbene nel ventesimo secolo la copula sembra essere diventato un aspetto sempre più quotidiano e al contrario la morte e aspetti ad essa correlati come la decomposizione sono diventati oggetto del pudore collettivo [cfr Gorer, 1955]. 

Secondo Gorer questo mutamento dell’osceno è da attribuirsi a una variazione del sentimento religioso. Contrariamente ad un tempo, infatti, oggi la fede in una vita ultraterrena è cosa assai rara e conseguentemente la morte è diventata un increscioso argomento da evitare. Tuttavia ad essere oggetto del comune senso del pudore sembra essere solo un particolare tipo di morte: la morte naturale. L’autore infatti, ci fa notare come il nostro immaginario collettivo sembri essere sempre più rivolto verso una brutale fine, segno di ciò sarebbe l’abbondare di prodotti con contenuto violento quotidianamente offertici dai Mass Media. Questo perché le nostre fantasie sono sempre attratte da quanto è anomalo e se prima non destava particolare attenzione il sesso “convenzionale” allo stesso modo la morte naturale ora non risveglia nessun tipo di interesse.

Sembra quindi evidente che la percezione della morte non sia niente affatto statica né tantomeno immutabile.

Essa è influenzata da pratiche e credenze. Tuttavia l’attuale approccio alla morte di noi occidentali sembra essere se non altro problematico: una società che abbandona e condanna i suoi membri alla solitudine davanti ad un enigma quale quello della morte si espone ad un rischio fortissimo di disgregazione [cfr Hertz, 1978] . Inoltre pensare di poter censurare i fatti fondamentali della vita, indipendentemente che si parli di sesso o di morte, è quantomeno ingenuo. Se impossibilitato a trattare un tema in modo aperto l’uomo ricorrerà a metodi sostitutivi indipendentemente che si tratti di riviste sconce o film splatter [cfr Gorer, 1955].

Daniele Baracetti

Info

 

 

 

Bibliografia                                                                                                                   

Aries P., Storia della morte in occidente, BUR Rizzoli, 2017                                   

Apocalisse di Giovanni, Feltrinelli,1992                                                               

Fabietti U., Storia dell’Antropologia, Zanichelli, 2001                                                  

Gorer G., La pornografia della morte, Encounter, 1955                                                  

Hertz R., Sulla rappresentazione collettiva della morte, Savelli, 1978                      

Penzo G., Kierkegaard: la verità eterna che nasce nel tempo, Edizioni Messaggero, 2000

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