Gli ultimi saranno criminali. Quando il potere forgia le identità

«Il ragazzo era nero, abitava nelle case popolari, si era messo a correre: tre elementi che attestavano la sua colpevolezza. Ripensai al racconto dello storico afroamericano Robin Kelly, di una sera in cui, quando ancora era uno studente a New York, rientrando a casa, stava correndo per non perdere l’ultimo autobus. All’improvviso si ritrovò circondato da poliziotti che gli intimarono di lasciare la cartella che aveva sottobraccio, lo placcarono al suolo con un colpo di manganello e lo ammanettarono, con il viso nel fango: Perché mi arrestate? Che cosa ho fatto? Correvi, sporco negro. Sono i criminali che corrono» [Fassin, 2013:129-130].

Perché è così facile associare il concetto di criminalità all’idea della periferia?

Vele di Scampia, ghetti del Bronx, favelas di Rio de Jainero, banlieues parigine, slums di Mumbai: queste sono solo alcune delle periferie delle grandi metropoli a cui è stato dato un nome di battesimo per identificare la pericolosità che le circonda. Per delineare questa analisi sarebbe sensato innanzitutto considerare i fenomeni della povertà e della malavita che, per un processo fisiologico, si creano in quei luoghi che abbracciano le zone che sono cresciute economicamente. Le grosse città, infatti, hanno attratto una mole di persone in cerca di ventura; i meno fortunati in termini di opportunità, però, si sono accontentati di restare ai margini di queste aree per sperare in una possibilità, senza di fatto allontanarsi troppo [cfr Fassin, 2013].

Quartieri isolati isolano chi vi abita: nasci in un brutto posto, sei povero, non hai possibilità, ci resti. Il circolo è vizioso: ti mancano le opportunità, ti arrangi con ciò che hai. Questo, però, non è soltanto un problema sociale perché le ragioni che alimentano la fama di queste periferie sono anche, e soprattutto, di carattere istituzionale. Parliamo, cioè, di potere.

Dall’analisi foucaultiana emerge che la “biopolitica” è quella forma del potere che ha per oggetto la vita umana in ogni sua forma: noi tutti siamo, cioè, il prodotto delle istituzioni e delle gerarchie sociali del nostro contesto [cfr Foucault, 2005]. Il nostro posizionamento sociale è pertanto il frutto di quello che Kimberlè Crenshaw chiama “intersezionalità”, un processo di produzione dell’identità in relazione alle circostanze che si alterna attraverso diverse variabili: genere, sesso, classe, razza, etnia [cfr Crenshaw, 1989]. Laddove si addensano, quindi, personalità che presentino simili caratteristiche discriminatorie, è possibile identificare una comunità che tende ad andare incontro a dinamiche di esclusione [Ibidem].

Come si gioca, allora, questo processo di costruzione identitaria?

Foucault definisce due modalità di costruzione identitaria sulla base del potere [cfr Foucault, 2001]:

  • assoggettamento, cioè quel processo per cui il soggetto si sottomette ad una parte dominante;
  • soggettivazione, cioè la costruzione della propria identità sulla base di questa sottomissione.

La dinamica, però, è reciproca e circolare: se da un lato spicca il processo di costruzione delle soggettività degli esclusi, dall’altro, meno visibile, resta chi esercita questa disciplina [cfr Fassin, 2001].

Un esempio che ci aiuta a capire questo meccanismo è l’esperimento psicologico condotto nel 1971 dal professor Philip Zimbardo, passato alla storia come “Esperimento carcerario di Stanford” [cfr Zimbardo, 2007]: venne creato un setting che riproduceva in maniera fedele quello di un carcere e vennero ingaggiati diversi volontari, divisi tra prigionieri e guardie, per studiare il comportamento umano in relazione al gruppo di appartenenza. I risultati rivelarono risvolti drammatici, perché coloro che giocavano la parte delle guardie approfittarono della loro posizione di potere per legittimare violenza, umiliazioni e pene corporali, mentre coloro che interpretavano i detenuti assunsero caratteri passivi: ciò venne chiamato, dallo psicologo, “effetto Lucifero”. Dopo solo cinque giorni venne tutto interrotto a causa della degenerazione dell’esperimento: le guardie non abbandonarono i loro comportamenti sadici, riuscendo così a mettere i detenuti l’uno contro l’altro; di conseguenza questi ultimi svilupparono alterazioni emotive e psicologiche che compromisero il loro rapporto con la realtà. Alcuni di essi presentavano sintomi di disturbi dissociativi della personalità.

Qual è la causa del rapporto che intercorre tra la “forza dell’ordine” e la violenza?

Oltre a questo processo di soggettivazione, Didier Fassin, medico, antropologo e sociologo francese, dà ai comportamenti violenti perpetrati dalla polizia un’ulteriore risposta: la noia. Le ronde notturne senza interventi, le lunghe ore passate in caserma senza emergenze e il fatto di poter esercitare controllo inducono i poliziotti a fare controlli inutili e a sospettare di chi non combina nulla di illegale [cfr Fassin, 2013].

Egli, seguendo per mesi una squadra speciale militare parigina (BAC), ha prodotto un’etnografiadelle forze dell’ordine, per dimostrare come, all’interno di un processo di criminalizzazione già presente nelle banlieues(alcuni tra i sobborghi più poveri di Parigi), la repressione attuata per mano della polizia giochi un ruolo fondamentale per la costruzione identitaria nelle zone urbane sensibili (ZUS).

Fassin riporta un episodio per cui due adolescenti immigrati, vedendo la polizia, si sentono minacciati e iniziano a correre, anche senza aver commesso alcun crimine: è la “memoria incorporata”, cioè quel meccanismo pavlovianoper cui il corpo si ricorda di un avvenimento e si attiva prima di riflettere; e l’avvenimento di cui si ricordano i due ragazzi è l’omicidio di due adolescenti di Clichy-sous-Bois ad opera della polizia, evento che fece innescare le rivolte delle banlieues nel 2005: perciò, dice Fassin, «hanno capito che era con loro che la polizia poteva avercela» [Fassin, 2013:33-37].

Il filosofo Louis Althusser utilizza il termine “interpellazione” [cfr Althusser, 1976] per riferirsi al richiamo al quale un individuo, che viene inserito dalla società in una categoria specifica, finisce per riconoscersi egli stesso come appartenente a quella categoria e, se interpellato, inevitabilmente risponde, accettando i termini della scena interlocutoria costruita da chi opera questo richiamo. Althusser si immagina che un poliziotto si rivolge ad un individuo, gridando: «”Ehi, lei, laggiù!” e, attraverso questa semplice torsione di 180° del tronco, [l’individuo interpellato] diventa soggetto» [Fassin, 2013:33]. In altre parole, è come riconoscersi colpevoli di qualcosa anche se innocenti, solo perché si è consapevoli della posizione ricoperta agli occhi della società.

Attenzione però: non serve pensare che potere e razzismo vadano inevitabilmente a braccetto.

Piuttosto, laddove queste dinamiche si verifichino, sarebbe più corretto parlare di discriminazione: secondo Fassin, il razzismo corrisponde a delle credenze e a dei sentimenti, mentre la discriminazione si riferisce a delle pratiche e a degli atteggiamenti basati su pregiudizi, che non implicano per forza razzismo. Infatti, se è vero che i poliziotti tendono a controllare di più uomini neri e arabi, non è perché sono razzisti, ma perché è fra questa gente che la loro efficacia è maggiore [Fassin, 2013]. Ecco allora che, ragionare in termini di razzializzazzione piuttosto che di razzismo [Riccio,2014], permette di riflettere sul modo in cui i concetti di razza, cultura ed etnicità portano a racchiudere gli individui, gli altririspetto al noi, in categorie che, inevitabilmente, producono gerarchie di classe.

Non resta che chiederci quanto e in che modo la nostra vita sia scandita dalle possibilità che incontriamo, dai luoghi in cui siamo nati e cresciuti e dai desideri resi pensabili dalle forme di potere che ci governano. Avere la fedina penale pulita significa essere brave persone o c’è in gioco qualcosa di più grande?

Ylenia Brusoni

Info

 

 

 

1  Etnografia, (dal greco, ethnos,popolo,graphéin, scrittura): metodo scientifico di ricerca proprio dell’antropologia che si pone l’obiettivo di descrivere nel dettaglio le caratteristiche della popolazione considerata e di spiegarne i meccanismi che stanno alla base del comportamento. Il prodotto è il resoconto di una lunga osservazione basata su teorie, della condivisione delle storie di vita, di interviste agli interlocutori e della presenza significativa del ricercatore nel campo [Malighetti, 2016].

2 In psicologia modello stimolo-risposta. Ad uno stimolo neutro fornito dall’ambiente, la mente si attiva con un comportamento che naturalmente porta ad un riflesso incondizionato o involontario. L’etologo russo Ivan Pavlov, nel 1903, portò alla luce questo tipo di meccanismo psicologico con il suo famoso esperimento con un cane che, all’udire del suono di una campanella associata all’arrivo del cibo, iniziava a salivare [Camaioni, Di Blasio, 2008].

Bibliografia

Althusser, L., “Les appareils idéologiques d’État”, in Positions, Éditions sociales, Pargi 1976

Camaioni, L., Di Blasio, P., Psicologia dello Sviluppo, Il Mulino, Bologna 2008.

Crenshaw, K.Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: a Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine. Feminist Theory and Antiracist Politics”,inUniversity of Chicago Legal Forum, 4, 1989

Fassin, D., La forza dell’ordine. Antropologia della polizia nelle periferie urbane, Edizioni La Linea, Bologna 2013.

Foucault, M.,Nascita della Biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005.

Foucault, M., “Le sujet et le pouvoir”, in Dits et écrits, Gallimard, Parigi 2001.

Foucault, M.,Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 2005.

Foucault, M.,La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1978.

Hegel, G. W. F., Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 2000.

Malighetti, R., Il metodo e l’antropologia. Il contributo di una scienza inquieta, Raffaello Cortina, Milano 2016.

Riccio, B., (a cura di), Antropologia e migrazioni, Cisu, Roma 2014.

Zimbardo, P.,L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?,Raffaello Cortina, Milano 2007.

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