Morire per uccidere. Breve analisi del terrorismo suicida

La cronaca degli ultimi anni, che sia essa riportata dai quotidiani o dai media multimediali, è stata caratterizzata spesso dalla narrazione di fatti riconducibili al terrorismo, alcuni indelebili nella nostra mente. Due esempi tra tutti:

  • il 18 Aprile 1983 alcuni militanti sciiti attaccarono con autobombe l’ambasciata americana di Beirut e una caserma dei Marines; nell’attentato morirono circa 300 persone. 

  • L’11 Settembre 2001 due aerei di linea (il volo American Airlines 11 e il volo United Airlines 175) furono dirottati e fatti schiantare contro le torri Nord e Sud (comunemente chiamate Torri Gemelle) del World Trade Center a New York; nell’attentato morirono circa 3000 persone e circa 6000 rimasero ferite.

Dal Duemila in poi i dati ci mostrano un netto aumento degli attentati terroristici, per lo più suicidi, raggiungendo anche i 600 attacchi in un anno localizzati per lo più nei territori di Afghanistan, Pakistan e Iraq [cfr. De Luca, 2019].

Sembrerebbe abbastanza chiaro come terrorismo, terrorismo suicida e martirio si connettano direttamente al concetto di strage [cfr. Schmid, 2011; Dei, 2016], tuttavia per gli studiosi risulta complicato elaborare una definizione unitaria ma soprattutto essenziale; basti pensare che una delle più complete, quella proposta da Alex P. Schmid nel 1985 (e revisionata nel 2011), si compone di ben 12 punti.

Due sono le questioni al centro del dibattito sulla definizione [cfr. Schmid, 2001]:

  • il termine va applicato anche alle azioni statali perpetrate dalle relative forze armate ufficiali?

  • Il termine va utilizzato anche di fronte a legittime lotte di liberazione da occupazione straniera o regimi coloniali?

La parola “terrorismo” è di per sé valutativa e non certo descrittiva [cfr. Dei, 2019], proprio perché nella concezione comune esprime più un giudizio quasi aprioristico piuttosto che offrire una descrizione puntuale di un’azione, difatti«ognuno tende a classificare come terroristi i propri nemici. Come si dice spesso: chi è terrorista per l’uno, è per l’altro un combattente per la libertà» [Ivi, p.18].

Il Terrorismo Suicida

Diego Gambetta definisce il terrorismo come «attacco violento progettato in modo che la morte del perpetratore sia strettamente essenziale per il suo successo» [Gambetta, 2005, in Dei, 2016:23]. La morte in un attacco suicida pertanto non risulterebbe “soltanto” un effetto collaterale ma una componente fondamentale; «senza di essa l’attacco non potrebbe definirsi pienamente compiuto» perché «mancherebbe gran parte della sua forza comunicativa» [Dei, 2016:23].

Chi è quindi l’attentatore suicida?

Una parte degli studiosi si è mossa concentrandosi soprattutto sugli aspetti patologici degli attentatori, ricercando problemi psichici che predisporrebbero alle attitudini terroristiche, in particolar modo quando queste portano al suicidio; tuttavia autori come Ariel Merari (analizzando il profilo di circa 3000 attentatori suicidi) non ritengono che il terrorismo suicida sia direttamente connesso alle tendenze suicide.

Il martirio militante, a differenza del suicidio individuale che può rappresentare una fuga da situazioni di insostenibilità delle relazioni, è ben radicato in una forte appartenenza comunitaria, nonché in una sua etica [cfr. Merari, 2010]; «i terroristi non sono depressi, gravemente disturbati o pazzi fanatici. Non è la psicologia individuale che consente di capire il comportamento dei terroristi, ma la psicologia sociale, di gruppo e delle organizzazioni […]. I terroristi hanno subordinato la loro identità individuale a quella collettiva, così che ciò che è utile al gruppo, all’organizzazione o alla rete è di primaria importanza» [Post, 2007, in Dei, 2016:72-73].

Per comprendere le motivazioni di un attentatore suicida servono quindi ricostruzioni biografiche inserite nel giusto e specifico contesto socio-culturale [cfr. Dei, 2016].

Legittimare il terrorismo suicida: l’esempio palestinese

La pratica di uccidersi per uccidere diviene, già dagli anni della cosiddetta “seconda intifada1”, il simbolo della lotta contro Israele. Ciò si è dovuto soprattutto grazie ad una profonda opera di plasmazione politico-culturale e religiosa in grado di conferire legittimazione morale ad un atto estremo. Non si tratta di “semplice” indottrinamento ma piuttosto di una lettura dell’esperienza quotidiana (fatta di sofferenza e frammentazione) attraverso potenti filtri [cfr. Dei, 2016].

Sono due i diversi piani da considerare:

  • Di razionalità strategica e politica; la lotta armata, alla luce di eventuali fallimenti diplomatici, viene mostrata come unico possibile strumento per ottenere riconoscimento. Tuttavia, data la superiorità militare dell’avversario, in questo caso Israele, gli attacchi convenzionali non sono ritenuti fattibili pertanto quelli suicidi vengo presentati come estremamente efficaci perché terrorizzanti e destabilizzanti per l’economia (ad esempio danneggiando il turismo) [cfr. Hafez, 2006; Brym-Araj, 2006; Moghdam, 2003, in Dei, 2016].

  • Simbolico-rituale; esiste tutto un repertorio di produzioni culturali di massa composto da immagini e slogan che celebrano i martiri dopo la loro morte. Gli stessi funerali propongono routine nelle quali la tradizione si mescola all’esaltazione nazionalistico-religiosa e a simboli violenti [Ibidem].

Rapporto con i media

In linea generale, il martire, soprattutto quello musulmano (shahid), è un testimone (shahid) della verità della fede. Nella congiuntura mondiale la jihadè riconosciuta in quanto fatto socialmente, politicamente e ideologicamente rilevante non in virtù delle cause locali che la hanno determinata, ma come una serie di effetti globali che hanno assunto una propria universalità [cfr. Devji, 2005 in Fabietti, 2007]. Tali effetti «sono il prodotto dei media e non delle storie singole dei particolari attivisti, e neppure delle condizioni ambientali che li hanno spinti a prendere questa via, come nemmeno delle teorie che, riallacciandosi alle varie scuole dottrinarie musulmane, possono giustificare queste scelte» [Fabietti, 2007:5]. Si tratta per lo più di un «discorso visuale» nel quale va collocata «un’intenzione comunicativa di tipo politico ma anche, e soprattutto, un modo di rappresentare a sé stessi il proprio destino, la propria missione, il proprio nemico e il proprio gesto» [Ivi, p.6]. Lo stesso decapitare gli ostaggi, così come le autopresentazioni che quasi fanno il verso ad un preciso stereotipo di mascolinità (alla Rambo), sono tipici riflessi di un codice mediatico, che sembra “autorizzare” comportamentiche non hanno nulla a che vedere con la tradizione islamica [cfr. Fabietti, 2007]

La testimonianza del gesto suicida avviene quindi in un contesto nel quale l’attentatore suicida trova la possibilità di essere percepito come martire sia dai suoi alleati che dai suoi nemici. Si è martiri perché pubblicamente riconosciuti tali. Compiere un atto sacrificale significa, in questo contesto, riplasmare le relazioni nel mondo. Chi si definisce vittima di violenza, per liberarsi di quest’ultima, compie un sacrificio che sembra voler, a suo giudizio, quasi ristabilire un equilibrio [Ibidem].

È quindi solo all’interno di questa particolare narrazione che si può tentare di cogliere le peculiarità di un gesto che, proprio nella rappresentazione di chi lo compie e di chi lo interpreta in un determinato modo, rendeun attentatore “anche” un martire.

Bettati Dario

Info

 

 

 

1 Rivolta palestinese esplosa a Gerusalemme il 28 Settembre del 2000 estesasi poi in tutta la Palestina.

2 Un termine che racchiude più significati: dallo sforzo interiore per raggiungere una perfetta fede alla cosiddetta guerra santa promossa dalla dottrina islamica.

Bibliografia

Dei, F., Terrore Suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio, Donzelli Editore, Roma, 2016

Dei, F., “Culture del terrore: l’occulto, l’immaginario e l’amplificazione discorsiva della violenza”, in Studi Culturali, n.1, 2019

Fabietti, U., “Terrorismo, martirio, sacrificio. Antropologia di una forma di violenza politico-religiosa”, in Oltrecorrente, 13, 2007

Merari, A., Driven to Death. Psychological and Social Aspects of Suicide Terrorism, Oxford University Press, New York, 2010

Schmid, A. P., (eds), The Routledge Handbook of Terrorism Research, Routledge, London-New York, 2011

Sinclair, A., Storia del terrorismo, Newton&Compton Editori, 2003

Zupin, D., Rapisarda, E., “Martirio, terrorismo suicida, religione e clima psicologico. Una prospettiva di psichiatria culturale”, in Rivista di Psichiatria e Psicoterapia Culturale, Vol. II, 2019

Sitografia

De Luca, D., M., “Breve storia del terrorismo suicida” – Il Post(24/04/19): https://www.ilpost.it/2019/04/26/terrorismo-suicida/

Intervista a Scott Atran – MicroMega(27/07/18):http://lameladinewton-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2018/07/27/i-sacri-valori-del-terrorista-per-un’antropologia-dell’estremismo-islamico-con-un’intervista-a-scott-atran/

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