Io sono perché l’altro è. Il ripensamento del concetto statico del noi

Tikopia è una piccolissima isola di pochi chilometri quadrati appartenente all’arcipelago delle Isole Salomone[1]. I suoi abitanti furono oggetto di uno studio di Raymond Firth, che visse in mezzo a loro tra il 1928 e il 1929. Il titolo della sua opera, “Noi, Tikopia” (1936), indica un senso di appartenenza ben radicato che stava alla base della mentalità dei tikopiani: essi si riconoscevano come membri di un gruppo formato da individui che parlavano la stessa lingua, consumavano lo stesso cibo, condividevano le stesse credenze e aderivano alle stesse pratiche [cfr. Remotti, 2011]. L’isola era perfettamente autosufficiente, disponeva di tutte le materie prime per garantire la sopravvivenza della popolazione ed era priva di malattie: un vero e proprio paradiso terrestre, tanto che, se allontanati dalla loro terra, molti tikopiani si sentivano disorientati e morivano di depressione [cfr. Firth, 1936].

Eppure, racconta Firth, gli abitanti di questa isola felice non potevano fare a meno di uscire dai propri confini per spingersi in mare alla ricerca di stranieri, i quali li aiutavano a tenere in vita la propria cultura, rinnovandola di continuo: i forestieri erano per loro l’unica fonte di novità, i soli dispensatori di racconti straordinari, fondamentali per la formazione di ciascuno; il desiderio irrefrenabile dei giovani isolani di incontrare altre popolazioni poggiava sull’idea che, dal loro viaggio, essi sarebbero tornati con un prezioso vantaggio [ibidem].

L’identità è un sistema aperto

L’immagine che si ha del “noi” è spesso quella di un cerchio all’interno del quale regnerebbero ordine e compattezza mentre, all’esterno, ci sarebbe il caos [cfr. Remotti, 2011]; di conseguenza lo straniero viene identificato come quel fattore utile a definire l’identità del noi in senso negativo [cfr. Sumner, 1962]: io non sono quello che l’altro è. Se però ci limitassimo unicamente a questo tipo di immagine, quello che ne verrebbe fuori sarebbe un atteggiamento etnocentrico[2], volto a collocare il proprio gruppo al centro della realtà e ai suoi margini quelli degli altri, valutati pertanto come accessori [ibidem].

Ciò che è interessante notare, prendendo come esempio il caso di Tikopia, è che le culture, quindi i diversi gruppi umani, non sono chiusi in sé stessi, bensì si configurano come veri e propri sistemi aperti, i quali, anche secondo la fisica, scambiano tra loro un flusso costante di materia, energia e informazioni [cfr. Remotti, 2011]. L’irrefrenabile bisogno di comunicare con l’esterno e portare dentro al gruppo elementi di novità dimostra allora che in questa “sfera” che è l’identità, vi è sempre una «breccia»[ivi, p.94 ], un’apertura attraverso la quale gli individui entrano ed escono arricchendo la propria struttura.

Così come risulta obsoleto ritenere che l’identità sia un oggetto chiuso, statico e completo, cadremmo in errore se pensassimo le culture come insiemi di usi e costumi che bastano a sé  stessi. Pertanto, dovremmo ricordare che questo è il vero motivo per cui noi dipendiamo e siamo fondamentalmente costituiti da molti elementi provenienti da culture diverse dalla nostra [cfr. Remotti, 2011]: io sono perché l’Altro è.

E se quello “barbaro” fossi io?

Parlando di cultura Nietzsche utilizza una metafora alimentare, affermando che «il gusto dell’uomo è necessario per il nostro nutrimento»[Nietzsche, 1964:522-523]: siamo cioè un corpo che per saziarsi ha bisogno di assaporare la diversità.

Affinché l’incontro con l’altro sia un autentico spazio di comprensione, non possiamo semplicemente limitarci a creare un’apertura nella sfera del “noi”, altrimenti rischieremmo di andare incontro ad un duplice spaesamento culturale [cfr. Remotti, 2011]: da una parte troveremmo la minaccia di un estraneo pronto a stravolgere o distruggere i nostri costumi; dall’altra, ci scopriremmo sommersi da una molteplicità di possibilità e di particolarità, che di fatto ci porterebbero ad un puro disorientamento. Per questo l’Altro richiede di essere interiorizzato: va osservato, ascoltato, avvicinato; bisogna partire dai propri schemi per sconfinare in quelli che, ad un primo impatto, potrebbero sembrare ignoti e oscuri [ibidem].

Per concretizzare questa “assimilazione” dell’Altro, l’antropologia ci viene in aiuto facendo riferimento ad una delle pratiche più discusse e controverse agli occhi dell’Occidente: il cannibalismo.

Anche se difficile da comprendere, l’antropofagia (letteralmente, l’ingestione di uomini) custodisce nella sua concretezza rituale un significato profondo e la propria ragion d’essere: una strategia per interiorizzare il nemico o un membro defunto del gruppo, “digerirlo” e farlo proprio, configurandosi come una pratica colma di senso nel fronteggiare un’entità sconosciuta, sia essa la morte o l’alterità [cfr. Remotti, 2011].

Claude Lévi-Strauss, celebre studioso delle tribù indigene dell’Amazzonia, sostiene l’assoluta razionalità del cannibalismo con queste parole: «[…] la disinvoltura di fronte alla memoria del defunto, che potremmo rimproverare ai cannibali, non è certo più grande, anzi al contrario, di quella che noi tolleriamo nelle sale di vivisezione. Ma dobbiamo soprattutto persuaderci che certi usi nostri, a un osservatore proveniente da una società diversa, apparirebbero della stessa natura dell’antropofagia che a noi sembra tanto estranea al concetto di civiltà» [Lévi-Strauss, 2015:332].Continua, poi, paragonando l’atrocità del cannibalismo alla violenza di una società, come l’Occidente, che invece “vomita” ed espelle le persone, confina e isola i nemici, senza preoccuparsi di comprenderli e privandoli della loro umanità: «Penso ai nostri usi giudiziari e penitenziari. A studiarli da fuori, si sarebbe tentati di opporre due tipi di società: quelle che praticano l’antropofagia, cioè che vedono nell’assorbimento di certi individui dotati di pericolose forze il solo modo di neutralizzare queste ultime e anche di metterle a profitto; e quelle che, come la nostra, adottano ciò che potrebbe chiamarsi anthropoémia (dal greco émein, vomitare); poste di fronte allo stesso problema, esse hanno scelto la soluzione inversa, consistente nell’espellere questi esseri pericolosi dal corpo sociale, tenendoli temporaneamente o definitivamente isolati, fuori da ogni contatto con l’umanità […]. Alla maggior parte delle comunità da noi chiamate primitive, quest’uso ispirerebbe un orrore profondo; esse ci giudicherebbero barbari, come noi siamo tentati di fare a loro riguardo, in ragione dei loro costumi simmetrici» [Ivi].

L’uomo, incontenibile viaggiatore in cerca di novità

A conclusione di questa breve riflessione sull’alterità quale linfa vitale per l’identità, può essere utile ritornare al tema del viaggio che, come visto, sta alla base della fenomenologia dello straniero dell’isola di Tikopia.

Il pensiero, infatti, ha un legame inscindibile con il movimento: semplicemente studiandone l’etimologia, è indubbio che il viaggio renda esperti. Il verbo viaggiare in lingua tedesca (fahren) deriva dalla parola “Erfahrung”, che significa “esperienza”; pertanto lo spostamento e l’uscita dal sé diventano metodo d’indagine per il nostro pensiero, libero di attingere immagini di umanità da molteplici fonti. Lo straniero è colui che incontriamo nei viaggi che ci pongono di fronte ad un’alterità ignota, ma si configura, allo stesso tempo, come uno specchio in cui vediamo riflessa la nostra immagine mutevole che afferma di essere il prodotto dell’incontro prezioso tra diversità: le culture sono, infatti, il risultato di infiniti scambi tra diversi gruppi umani, dacché l’uomo ha fatto la sua comparsa sulla Terra [Remotti, 2011].

L’antropologia e la sua riflessione critica sul viaggio ci restituiscono, così, il resoconto della storia dell’uomo come una storia di movimento e di sete di conoscenza che spinge ad andare oltre i propri confini. Perché, come rispose un uomo di Tikopia alle sollecitazioni di Firth: «se parto, muoio. Se resto qui, muoio lo stesso» [Firth, 1936: 21]

Ylenia Brusoni

Info

 

 

 

[1]Le Solomon Islands sono situate in Oceania, a est della Papua Nuova Guinea

[2]Da Treccani: “tendenza a giudicare i membri, la struttura, la cultura e la storia di gruppi diversi dal proprio, con riferimento ai valori, alle norme e ai costumi ai quali si è stati educati. Quasi sempre l’etnocentrismo comporta la supervalutazione della propria cultura e, di conseguenza, la svalutazione della cultura altrui”.

Bibliografia

Firth, R., We, the Tikopia. A sociological study of Kinship in Primitive Polynesia, Allen & Unwin, London 1936

Lévi-Strauss, C., Tristi Tropici, Il Saggiatore, Milano 2015

Remotti, F., Cultura. Dalla complessità all’impoverimento, Laterza, Urbino 2011

Remotti, F., Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 1990

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