Scienza senza donne? No grazie!

Immagine realizzata da Chiara Merisio

Insegnate alle bambine ad essere coraggiose, non perfette” – Reshma Saujani

Istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2015, la “Giornata Internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza” rappresenta un’importante occasione per sensibilizzare e incentivare l’accesso paritario delle donne nella scienza, nonché per promuovere l’uguaglianza di genere e raggiungere una piena parità di opportunità nella carriera scientifica. Sorgono spontanee alcune domande: le donne sono davvero più portate per le materie umanistiche e gli uomini per quelle scientifiche, o è un puro e semplice pregiudizio? Può l’agire educativo, professionale e non, modificare questa visione diffusa?

L’Effetto “Matilda” e la mancanza di esempi nell’immaginario femminile.

“Effetto Matilda” è l’espressione utilizzata dalla storica della scienza Margaret W. Rossiter (1993) per indicare il mancato riconoscimento, o la minimizzazione, dei contributi delle donne alla ricerca scientifica; tale effetto contribuisce ad alimentare – ed è alimentato – dagli stereotipi di genere che attribuiscono alle donne scarse capacità, inclinazioni e interesse verso le discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics).

Alice Augusta Ball (scopritrice di un trattamento contro la lebbra il cui riconoscimento è stato dato al Presidente dell’Università), Rosalind Franklin (il cui lavoro, mai valorizzato, ha portato alla scoperta della doppia elica del DNA), Nettie Stevens (le cui scoperte, non riconosciute, hanno permesso a Thomas H. Morgan di ottenere il premio Nobel) e Jocelyn Bell (scopritrice della prima pulsar assieme al suo relatore, al quale fu attribuito il premio Nobel per la fisica) sono solo alcune tra scienziate il cui riconoscimento è stato negato.

L’immaginario comune, dunque, non ha mai costruito la figura della “donna scienziata”, che infatti non rappresenta uno degli esempi, degli orizzonti di riferimento con cui bambine e ragazze possono confrontarsi e in cui possono immedesimarsi. Questo viene confermato anche dai dati dell’UNESCO Institute for Statistics (UIS) (2018): le donne nel mondo della ricerca scientifica sono sottorappresentate poiché, a livello mondiale, costituiscono solamente il 30% circa delle persone che di professione sono impegnate nella creazione di nuove conoscenze.

Non esistono materie e professioni femminili: esistono condizionamenti sociali che influenzano le scelte.

Gli stereotipi di genere sono portatori di descrizioni non emotivamente neutre (quelle maschili sono ritenute positive, quelle femminili negative) (Battacchi e Codispoti, 1988) e di attribuzioni di caratteristiche e comportamenti universali relativi alla femminilità e alla mascolinità (Archer e Loyd, 2002); tali stereotipi influenzano gli individui fin dalla primissima infanzia (Gianini Belotti, 1973) tant’è che, come sostenuto da Reshma Saujani nella sua TedTalk (2016), fin dai primissimi anni della vita le bambine vengono educate ad essere socialmente perfette, i bambini ad essere socialmente coraggiosi.

Nelle STEM gli stereotipi cancellano le differenze individuali, soprattutto perché i ruoli ad esse legate e, in generale, le abilità tecnico-scientifiche, sono solitamente rappresentate come razionali, intellettuali e indipendenti, qualità associate alla mascolinità. Ciò ha dato luogo alla cosiddetta “segregazione formativa” (Biemmi e Leonelli, 2016), la suddivisione sessista dei percorsi di studio che induce a scegliere indirizzi considerati più adeguati al genere d’appartenenza. Nonostante tale fenomeno si sia affievolito negli ultimi anni, di fronte alla possibilità inedita di accedere ai vari campi del sapere e a diversi profili professionali, la gran parte delle ragazze sceglie ancora quei settori che la tradizione assegna loro (cura ed educazione) a causa di condizionamenti sociali e culturali nutriti dalla famiglia (Tomasetto et al., 2015), dai media, dalla scuola, ecc. che plasmano le loro preferenze in maniera subdola e pervasiva (Biemmi e Leonelli, 2016; Barone, 2011; Jonsson, 1999). 

Non esistono professioni femminili: esistono le difficoltà poste dal mercato del lavoro.

Le donne, anche quando scelgono percorsi formativi “poco convenzionali”, incontrano maggiori difficoltà a entrare e a stabilizzarsi nel mercato del lavoro rispetto agli uomini; permangono infatti numerosi pregiudizi sulle loro capacità e competenze nonché l’idea che la loro forza lavoro sia instabile e “non conveniente” (Sartori, 2009). Si presume, infatti, che le donne avranno sicuramente delle gravidanze e, in seguito, dedicheranno meno impegno e attenzione alle mansioni lavorative poiché impegnate nell’accudimento dei figli.

I 3 aspetti della formazione delle professionalità educative.

Stereotipi e pregiudizi trovano, paradossalmente, ambiente fertile tra le professionalità dell’educazione e della formazione che spesso hanno assolto, e assolvono, direttamente o meno, consapevolmente o meno, una funzione rafforzativa (Dello Preite, 2013). La formazione dei/lle professionisti/e e futuri tali è quindi fondamentale; essa dovrebbe prevedere sia lezioni di tipo teorico, sia momenti laboratoriali di didattica attiva nei quali privilegiare la rielaborazione dell’esperienza quotidiana. I tre aspetti fondamentali su cui la Pedagogia di genere generalmente si concentra sono (Biemmi e Leonelli, 2016):

  1. Piano personale. Partire da sé, rivisitando la propria storia, per esplicitare e riconoscere stereotipi, pregiudizi e modelli interiorizzati affinché non diventino il paradigma inconscio utilizzato per giudicare le performance di genere altrui.
  2. Piano professionale. Sviluppare consapevolezza sulle proprie modalità comunicative e relazionali e sull’importanza di far emergere il cosiddetto “curricolo nascosto”, ovvero l’insieme di valori, credenze, convinzioni, regole, conoscenze, comportamenti del/della professionista, nonché confrontarsi con i processi riguardanti la costruzione dell’identità di genere nell’infanzia e nell’adolescenza.
  3. Piano culturale. Decostruire l’immaginario di genere nei diversi ambiti, identificando le rappresentazioni sociali e accertando quali sono i principali condizionamenti in grado di limitare l’orizzonte esistenziale.

Educazione e Pedagogia di genere per produrre cambiamenti culturali.

Poiché gli effetti dell’esposizione agli stereotipi di genere dipendono da come il soggetto interpreta e attribuisce significati a ciò che lo circonda, il compito di chi ha responsabilità educative, professionali e non, è dunque quello di incrementare le competenze di lettura del mondo e rendere plurali le vie di significazione della realtà, permettendo a ciascuno di scegliere e negoziare sulla base delle proprie peculiarità, propensioni, abilità (Biemmi e Leonelli, 2016). 

L’Educazione di genere può certamente configurarsi in percorsi ad hoc ma questa passa, in particolare, da azioni, pratiche, atteggiamenti, pensieri quotidiani, in particolare:

  • utilizzo di un linguaggio inclusivo, non discriminatorio né sessista, libero da pregiudizi, che non veicoli stereotipi; 
  • non avere aspettative differenziate basate su presunti ruoli e caratteristiche di genere;
  • dare a tutti e tutte gli stessi compiti e ruoli (di leadership, di cura, di cooperazione, ecc.);
  • evitare di classificare secondo il genere attività e strumenti utilizzati;
  • conoscere le peculiarità di ciascun individuo, riconoscendo che prescindono dal genere.

Educare, allora, significa anche costruire gli strumenti per uscire dalle “gabbie di genere” (Biemmi e Leonelli, 2016), significa fare in modo che il potenziale contributo alla conoscenza e all’innovazione offerto da persone di tutti i generi non venga più perso: scienza e uguaglianza di genere dovrebbero diventare un binomio irrinunciabile.

Dott.ssa Chiara Merisio

Info

 

 

Bibliografia

Barone, C. (2011), “Some things never change. Gender segregation in higher education across eight nations and three decades”, in Sociology of Education, (84)2.

Battacchi, M., Codispoti, O. (1988), “I pregiudizi sociali”, in Caprara G.V., Personalità e rappresentazione sociale, Roma, Carocci.

Biemmi, I., Leonelli, S. (a cura di) (2016), Gabbie di genere: Retaggi sessisti e scelte formative. Torino, Rosenberg & Sellier.

Dello Preite, F. (2013), “Stereotipi e pregiudizi di genere. Il ruolo della scuola e le competenze dei docenti”, in Formazione e Insegnamento. Rivista internazionale di scienze della formazione e dell’educazione, (XI)3.

Gelli, B. (2009), Psicologia della differenza di genere. Soggettività femminili tra vecchi pregiudizi e nuova cultura, Milano, Franco Angeli.

Belotti, G.E. (1973), Dalla parte delle bambine. Milano, Feltrinelli.

Jonsson, J.O. (1999), “Explaining sex differences in educational choice. An empirical assessment of a rational choice model”, in European Sociological Review, 15(4).

Sartori, F. (2009), Differenze e diseguaglianze di genere, Bologna, il Mulino.

Rossiter, M.W. (1993), “The Matthew Matilda Effect in Science”, in Social Studies of Science, 23

Tomasetto, C., Mirisola, A., Galdi, S., Cadinu, M. (2015), “Parents’ math–gender stereotypes, children’s self-perception of ability, and children’s appraisal of parents’ evaluations in 6-year-olds”, in Contemporary Educational Psychology, 42.

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