Dove gli animali lottano, gli uomini odiano: genesi del male

«Questo grande male, da dove viene? Da quale seme, da quale radice si è sviluppato? Chi è l’artefice di tutto questo? Chi ci sta uccidendo? Chi ci sta derubando della vita e della luce, prendendosi beffa di noi, mostrandoci quello che avremmo potuto conoscere? La nostra rovina è di sollievo alla terra? Aiuta l’erba a crescere… il sole a splendere?»
[Soldato Edward P. Train, dal film La sottile linea rossa]

Il 17 gennaio 1969, la rivista americana Time riportò uno studio che definì l’uomo come l’animale più aggressivo tra tutti. Il motivo? A differenza delle altre specie, sarebbe l’unico a godere quando uccide.
Il regno animale è denso di aggressività e, appartenendo l’uomo a questa cerchia, conosce anch’esso la legge del più forte: si lotta per affermare la propria superiorità sugli altri. Ma c’è una questione tanto interessante quanto inquietante: la specie umana oltrepassa quel confine naturale di rivalità per giungere alla sfera del male e della cattiveria. L’uomo mostra di poter arrivare a gioire per la sofferenza dell’altro e lo vediamo quando ci imbattiamo in torture, discriminazioni, bullismo, sopraffazione, abuso di potere.

Una premessa è doverosa:

verrà, di seguito, presentata solo una panoramica su alcune delle cause biologiche della brutalità umana; si consideri, infatti, che lo studio dettagliato del comportamento e della storia evolutiva dell’uomo si articola in una ben più ampia discussione che si compone di innumerevoli teorie antropologiche, psicanalitiche, etologiche[1], filosofiche e neuro-biologiche.

Il più perverso tra gli animali

Nei primi anni Trenta, ben consapevole che rimaneva poco tempo prima della Seconda Guerra Mondiale, Albert Einstein scrisse una lunga lettera a Sigmund Freud per chiedergli quali fossero, oltre ai chiari interessi economici e politici, i meccanismi psichici che spingono gli uomini a farsi la guerra. Egli non si spiegava come fosse possibile la tolleranza di una tale perversione e, la risposta dello psicanalista, non tardò ad arrivare: «con l’introduzione delle armi […] all’intenzione di uccidere subentra talora la riflessione che il nemico può essere impiegato in mansioni servili utili se lo s’intimidisce e lo si lascia in vita. Allora, la violenza si accontenta di soggiogarlo, invece che ucciderlo. Si comincia così a risparmiare il nemico, ma il vincitore da ora in poi ha da fare i conti con la smania di vendetta del vinto» [Einstein, Freud, 1932]. Questa teoria afferma che l’introduzione delle armi ha causato l’intensificarsi della malvagità nell’uccisione dei nemici, raggiungendo livelli a volte insostenibili: se gli animali uccidono per cibarsi o difendersi, gli uomini arrivano all’omicidio anche solo per il gusto di uccidere.

Nel capitolo “L’alba dell’uomo” del film 2001: Odissea nello spazio, Stanley Kubrick condensa interi manuali scientifici che trattano questo argomento nella celeberrima scena dell’apparizione del monolito. Tra un gruppo di ominidi, ve ne è uno in particolare intento a maneggiare un grande osso, finché non si accorge che, servendosi della propria forza fisica, esso può diventare un arnese utile a distruggere altre ossa. L’intuizione è chiara: quell’oggetto diviene un’arma, che utilizza per uccidere un altro primate in uno scontro, per riaffermare la gerarchia di gruppo. La chiave di volta nell’emancipazione dell’umanità fu, quindi, la scoperta degli utensili a scopo difensivo e offensivo [ibidem].

Numerosi studi affermano che gli animali, sebbene dotati di fauci terribili, sarebbero poco propensi alle uccisioni immotivate, soprattutto tra conspecifici, mentre tra gli uomini questa pratica è nettamente più frequente: i primi presenterebbero un comportamento reattivo alla violenza, mentre i secondi avrebbero anche una risposta proattiva, cioè senza fattori scatenanti [cfr. Wrangham, 2019]. L’etologia spiega questa differenza attraverso l’esistenza delle armi:«quando gli uomini si aggrediscono con le nude mani, l’uno, alla fine, può sottomettersi e muovere compassione; con l’invenzione della prima arma, la situazione si è mutata di colpo; […] nel tiro a distanza, il tiratore, in generale, non è affatto conscio di star per uccidere un congenere» [Eibl-Eibesfeldt, 1971:127]. Le armi implicano una distanza fisica tra carnefice e vittima; l’omicidio non viene commesso a mani nude e questo spoglia la vittima della sua essenza di soggetto, rendendola, di fatto, un mero pezzo di carne, verso il quale si usa una grande brutalità.

La differente brutalità nell’uomo e negli animali

È chiaro che anche alcuni animali siano in grado di maneggiare oggetti per arrecare danni, per costruire rifugi o per procurarsi del cibo; si parla, infatti, di una vera e propria cultura anche per essi: sanno vivere in società, sanno comunicare, sanno organizzarsi, sanno prendere decisioni collettivamente e sono anche capaci, attraverso la lotta, di stabilire gerarchie e regolare conflitti di interesse [Tomasello, 2014]. La particolare struttura cerebrale dei primati ha permesso, a differenza degli altri animali, di assumere una posizione eretta camminando, di conseguenza, con due arti su quattro: se prima la parte anatomica atta alla prensione di oggetti era la bocca, le mani l’hanno liberata, e con essa gli uomini hanno potuto articolare il linguaggio, che ha permesso di apprendere, di volta in volta, nuove informazioni che non appartenessero alla sfera dell’istinto.

Nel suo processo evolutivo, l’uomo ha mantenuto questo “animalesco” codice genetico, ovvero sequenze motorie e pulsioni che non richiedono l’apprendimento per entrare a far parte del savoir faire; la sua evoluzione culturale gli ha però permesso di ottenere una meta-riflessione sui propri comportamenti [ibidem].
È proprio in questo spazio di riflessione che possiamo individuare la base biologica utile a spiegare la differenza fondamentale tra la malvagità umana e l’aggressività animale. La branca delle neuroscienze affettive individua, sia negli animali che negli uomini, sette principali sistemi di emozioni, cioè risposte emotive immediate involontarie che scaturiscono dalla connessione tra stimoli esterni e precise sostanze prodotte dal corpo: euforia (che deriva dal rilascio di dopamina), paura (legata al cortisolo), desiderio sessuale (per via degli ormoni sessuali), amorevolezza e cura (legate all’ossitocina), tristezza (che subentra in assenza della cura), gioia e giocosità (per un connubio di dopamina ed endorfina) e infine rabbia e dominanza (prodotte da testosterone e serotonina) [Panksepp, 1998][2].

Gli umani hanno però un passaggio in più, e cioè la “mediatezza”: noi siamo in grado, cioè, di prendere coscienza di queste emozioni e farne oggetto di riflessione; ed è qui, nella mediazione, che hanno luogo i sentimenti affettivi. Le emozioni primarie possono generare, negli uomini, dei processi emotivi superiori più complessi di quelli del regno animale, che le neuroscienze classificano come secondari e terziari: la nostra consapevolezza dell’essere arrabbiati, ad esempio, e quindi il valore che attribuiamo all’emozione della rabbia, innesca sentimenti che non si riscontrano nei primati, come il rancore, la gelosia, l’odio, la frustrazione, la vendetta. In sintesi, gli animali provano sì emozioni, sanno arrabbiarsi e affezionarsi, ma non arrivano al sentire affettivo, cioè non possono, per esempio, odiare o innamorarsi, a nostra differenza [cfr. Panksepp, Biven, 2012].

L’evoluzione umana: un’arma a doppio taglio 

Se, insomma, è vero che siamo gli animali più emancipati a livello culturale, dovremmo pensare alla nostra specie come carente nel buon funzionamento sociale. Nel processo evolutivo, l’uomo è andato incontro ad un’esplosione intellettuale, ma ha conosciuto, allo stesso tempo, un’involuzione sul piano della conservazione dell’equilibrio della specie: la scoperta delle armi e lo sviluppo del sentimento dell’odio coincidono con l’origine del male, punto di non ritorno. Abbiamo accettato, strada facendo, di essere cattivi e perversi. Abbiamo imparato a fare la guerra, a torturarci, a sopraffarci, ad annullarci: «se la smetteremo di erigere barriere alla comunicazione fra uomini e di degradare a mostri coloro che sono uomini come noi, anche se aderiscono ad altri sistemi di valori – ma, al contrario, accentueremo ciò che ci lega, noi prepareremo per i nostri nipoti un futuro felice. Le potenzialità del bene sono biologicamente presenti in noi quanto quelle dell’autodistruzione. […] [L’uomo] medita su questa creazione e cerca di plasmarla egli stesso e, ciò facendo, forse finisce per distruggerla. Sarebbe veramente grottesco risolvere in quest’ultimo modo il problema del significato della vita» [Eibl-Eibesfeldt, 1971:288].

Nello scambio epistolare tra Einstein e Freud, lo psicanalista propone una soluzione precisa all’odio e alla violenza: tornare alla nostra pulsione di più autentica connessione, l’Eros. «La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “Ama il prossimo tuo come te stesso”» [Einstein, Freud, 1932]. Egli paragona questa operazione all’addomesticamento di certe specie animali, un processo che comporta modificazioni mentali, emotive, ma anche fisiche; un discorso di incivilimento che sposta progressivamente la pulsione aggressiva verso uno spazio di riflessione e mediazione. Educare al sentire compassionevole e all’amore viscerale verso noi stessi e gli altri è, per Eibl-Eibesfeldt e per Freud, l’unico modo per emanciparci dalla depravazione.

Ylenia Brusoni

Info

 

 

 

[1] L’etologia è una branca della biologia che studia il comportamento animale.

[2] Il Dottor Ekman sintetizza le emozioni primarie in: felicità, paura, rabbia, disgusto, tristezza e sorpresa [Ekman, 2010]

Bibliografia

Eibl-Eibesfeldt, I, (1971), Amore e odio: per una storia naturale dei comportamenti elementari, Adelphi, Milano.

Einstein, A., Freud, S., (1975), Perché la guerra? Considerazioni attuali sulla guerra e la morte; Caducità, Bollati Boringhieri, Torino.

Ekman, P., (2010), Te lo leggo in faccia. Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste, Edizioni Amrita, Torino.

Panksepp, J., (1998), Affective neuroscience: the foundations of human and animal emotions, Oxford University Press, New York

Panksepp, J., Biven. L, (2012), The Archaeology of Mind: Neuroevolutionary Origins of Human Emotion, W. W. Norton & Company, New York.

Tomasello, M., (2014), Unicamente umano. Storia naturale del pensiero, Il Mulino, Bologna.

Wrangham, R., (2019), The Goodness Paradox: The Strange Relationship Between Virtue and Violence in Human Evolution, Pantheon Books, New York

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