Clubhouse: una nuova dipendenza?

Pensavamo aver visto di tutto e di aver raggiunto l’apice anche nel mondo dei Social Network, ma evidentemente ci eravamo sbagliati. Infatti, un nuovo fenomeno, nel 2021, sta conquistando la realtà digitale: si tratta di Clubhouse.

L’applicazione è divisa in diverse room, all’interno delle quali troviamo sia il palco virtuale degli speaker sia la platea. L’utente ha diverse opzioni di scelta: può creare una stanza tutta sua o partecipare a quelle già aperte, scegliendo se rimanere tra gli uditori o, se i moderatori lo consentono (e di norma è così), può alzare la mano e salire on stage. In questo caso, avrà la possibilità di prendere la parola e partecipare attivamente al dibattito. 

Questo social ha un’interessante particolarità:

si può usare soltanto la propria voce. Niente foto, niente video, niente caption scritte. L’unico canale di comunicazione è la voce e ogni stanza è rigorosamente in diretta. Questa caratteristica costituisce già un aspetto importante: in Clubhouse si gioca tutto nel qui ed ora, dove non esistono registrazioni né repliche. Iniziamo dunque a comprendere come mai molte persone siano rimaste letteralmente incollate a questa nuova applicazione: “se non ti connetti, potresti perderti qualcosa”. Un modello teorico utile per spiegare questo fenomeno è il principio di scarsità, noto anche come “la regola dei pochi”: abbiamo la tendenza a percepire le opportunità come maggiormente desiderabili quando la loro disponibilità è limitata (Cialdini, 1989).

Clubhouse potrebbe generare una nuova forma di dipendenza?

Il DSM-5, cioè il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, ha inserito un capitolo in cui elenca alcune condizioni cliniche, che necessiterebbero di ulteriori approfondimenti. Queste condizioni, secondo il manuale, a oggi non costituiscono ancora una diagnosi psichiatrica, ma si auspica che possano esser studiate in modo più mirato per orientarne l’eventuale inserimento nelle prossime edizioni del DSM. Alcuni esempi riportati dall’American Psychiatric Association sono: la dipendenza da caffeina, il disturbo da lutto persistente e complicato, il disturbo da comportamento suicidario e la dipendenza da gioco su internet (APA, 2013). L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha invece già riconosciuto la dipendenza da gaming (incluso quello su smartphone) come un disturbo, inserendola all’interno dell’ICD-11 (cioè l’International Classification of Diseases, la classificazione dei disturbi mentali stilata dall’OMS), la cui entrata in vigore è prevista per gennaio 2022 (Paschke et al., 2020).

Può un social creare dipendenza al pari di una sostanza psicoattiva? La risposta è: sì!

Ogni volta che parliamo di una dipendenza, sia essa da sostanze, sport, gioco d’azzardo, sesso, cibo, cellulare e qualsivoglia altro oggetto o attività, ad esser chiamato in causa è sempre lo stesso meccanismo: l’attivazione del sistema dopaminergico meso-cortico-limbico, denominato anche “circuito del reward” (Bear et al., 1996; Ladavas, Berti, 2009; Gazzaniga et al., 2015).

L’obiettivo primario di questo circuito è spingerci verso comportamenti adattivi (come, ad esempio la ricerca di cibo o di compagnia) e lo fa facendoci provare una sensazione di benessere quando ne entriamo in contatto. La dopamina è il neurotrasmettitore che media questo circuito e l’aumento della sua disponibilità funge da “rinforzo positivo”. Che cosa significa? Vuol dire che l’aumento di dopamina ci fa provare una sensazione di benessere, la quale ci spinge a ricercare di nuovo quel comportamento/sostanza/oggetto che ha attivato il circuito. Per questo motivo, aumentano le probabilità che il comportamento venga reiterato (Bear et al., 1996; Vento, Ducci, 2018).

La prima area che si attiva nel circuito del reward è l’area tegmentale-ventrale, che aumenta la sua disponibilità di dopamina e la proietta al nucleus accumbens. Quest’ultimo costituisce un po’ il nostro “motore motivazionale”: quando si attiva, sentiamo l’impulso ad agire, a muoverci verso lo stimolo gratificante. Queste due aree, insieme, proiettano alla corteccia prefrontale, che invece ha un’importante funzione di inibizione sul sistema che si è appena attivato: anticipando le conseguenze presiedendo a tutte quelle funzioni cognitive ed emotive di ordine superiore, la corteccia prefrontale ha il potere di inibire un comportamento che, per una serie di ragioni, potrebbe essere inappropriato al contesto o addirittura disfunzionale. Ma non sempre riesce ad avere la meglio (Ibidem).

La dipendenza vera e propria, infatti, non si instaura subito ma dopo un’esposizione ripetuta allo stimolo e dopo aver ricevuto tutta una serie di rinforzi positivi. Essa si stabilisce nel momento in cui l’uso dell’oggetto/sostanza/comportamento diventa incoercibile e privo di controllo: non è più il soggetto a controllare quello che fa ma è l’oggetto esterno a controllare lui. Possiamo dunque individuare una progressione: dall’uso all’abuso, fino alla dipendenza (ibidem).

Qualsiasi comportamento di dipendenza si instaura, dunque, sulla base di un rinforzo, causato dall’attivazione del circuito del reward: aumenta la quantità di dopamina nell’area tegmentale-ventrale, che raggiunge nucleus accumbens e la corteccia prefrontale. Alla base della sensazione di benessere che proviamo quando entriamo in contatto con qualcosa che può generare dipendenza c’è, dunque, l’aumento di disponibilità di dopamina, la quale crea una serie di conseguenze neurobiologiche che, se protratte per certi periodi, portano all’instaurarsi del circolo vizioso. Diventa perciò importante contrastare tempestivamente certe tendenze: quando, a livello corticale, le modificazioni non sono più soltanto funzionali ma anche strutturali, il problema si è ormai cronicizzato (Bear et al., 1996; Vento, Ducci, 2018).

In conclusione, mentre la ricerca scientifica sul fenomeno Clubhouse prolifera (Fekete et al., 2020; Mutschler et al., 2021), non ci sono ancora studi scientifici evidence-based che dimostrino che Clubhouse possa creare dipendenza. Ciò che è certo è che l’uso problematico dei social è capace di attivare gli stessi circuiti attivati dall’uso di sostanze psicoattive (Vento, Ducci, 2018).

Gloria Rossi

 

Gloria Rossi

Info 

 

 

Bibliografia

American Psychiatric Association, (2013), Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione (DSM-5), trad. it M. Biondi (a cura di), Milano, Raffaele Cortina Editore

Bear, M.F., Connors, B.W., Paradiso, M.A., (2002), Neuroscienze: esplorando il cervello, trad. it. 4°ed. a cura di A. Angrilli, C. Casco, A. Maravita, M. Olivieri, E. Paulesu, L. Petrosini, B. Sacchetti, Milano, Masson (Ed. or. 1996).

Cialdini, R., (2005), Le armi della persuasione, Firenze-Milano, Giunti Editore, (Ed. or. 1989).

Fekete, O. R., Langeland, E., Larsen, T. M., & Kinn, L. G. (2019), Finally, I belong somewhere I can be proud of”–Experiences of being a Clubhouse member in Norway, in International journal of qualitative studies on health and well-being, 15(1)

Gazzaniga, M.S., Ivry, R.B., Mangun, G.R. (2015), Neuroscienze cognitive, trad. it. 4° ed. a cura di A. Zani, A. Mado Proverbio, Bologna, Zanichelli

Ladavas, S., Berti A.E., (2009), Neuropsicologia, Bologna, Il Mulino

Mutschler, C., Junaid, S., McShane, K. (2021), Clubhouses Response to COVID-19: Member Challenges and Clubhouse Adaptations, in Community Mental Health Journal 57

Paschke, K., Austermann, M.I., Thomasius, R., (2020), Assessing ICD-11 Gaming Disorder in Adolescent Gamers: Development and Validation of the Gaming Disorder Scale for Adolescents (GADIS-A), in Journal of Clinical Medecin 4

Vento, A.E., Ducci G. (2018), Manuale pratico per il trattamento dei disturbi psichici da uso di sostanze, Roma, Giovanni Fioriti Editori

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