Vivere nell’Antropocene – Pt.1

Viviamo nell’era dell’Antropocene: cos’è? Un’era in cui a generare i cambiamenti non è più la Natura ma l’Uomo e ciò che lui stesso ha creato.  Il termine è stato utilizzato per la prima volta dal chimico Premio Nobel Paul Crutzen nel 2000 per sintetizzare in una parola il carattere inedito dei mutamenti provocati dalle attività umane e i rischi che ne derivano [Crutzen, 2002:23].

Le scienze sociali sono andate alla ricerca delle cause che hanno posto le basi dell’Antropocene trovandole nel sistema economico, politico e tecnologico del modello di sviluppo capitalistico e riconoscendo nell’industrializzazione il momento di passaggio ad un’era all’altra: da Olocene[1]ad Antropocene, ossia l’era della Terra segnata dall’impronta indelebile dell’uomo. L’antropologo Franco Lai afferma che «è a cominciare dalla rivoluzione inglese del Settecento, con l’uso di fonti energetiche fossili come il carbone, l’espansione dell’economia capitalistica e la crescita accelerata della popolazione, che si può assistere a trasformazioni importanti degli ecosistemi terrestri» [Lai, 2020:14].

Il cambiamento del e nel nostro pianeta è chiaro: la Terra non riesce più a sostenere la presenza umana e le risorse stanno finendo. Queste trasformazioni si pongono come un’emergenza da risolvere che, se non affrontata, potrebbe portare alla fine della vita per la specie umana e del pianeta Terra stesso.

Possono gli esseri umani far fronte a questa emergenza?

L’Homo Sapiens ha saputo adattarsi efficacemente a una molteplicità di situazioni, spostandosi e insediandosi in quasi tutte le parti del mondo grazie agli strumenti della cultura: gli esseri umani sono stati capaci di esplorare e osservare sia i limiti sia le risorse dei vari tipi di ambiente, così da coglierne i segni che consentissero anche di prevedere eventi naturali. Secondo Francesco Remotti «le azioni umane, essendo il frutto di scelte culturali, contengono una buona dose di arbitrarietà e per questo sono suscettibili di sospensione e vanno vagliate e sottoposte a un giudizio. La nostra cultura – che l’antropologo chiamacultura dell’Antropocene – è però accecata, poiché il furore del nostro fare è accecante» [Remotti, 2021:55]. La nostra cultura è dunque ricca di strumenti per vedere, esplorare e controllare ogni tipo di realtà, ma è proprio questa ricchezza, che essendo così variegata, estesa, vasta e coinvolgente non può essere «messa tra parentesi» sottoposta a «sospensione» rendendoci ciechi di fronte ai disastri e alle catastrofi» [ivi, p.55].

“Sospendere” è una parola-chiave in opposizione a continuare: i vari lock-downhe abbiamo sperimentato per fronteggiare la pandemia da covid-19 sono esempi di sospensione, con essi vengono sospesi numerosi aspetti della vita sociale connessi inevitabilmente anche alla vita economica ma basti pensare anche semplicemente al ciclo del lavoro e del riposo, della veglia e del sonno: «non potremmo sopravvivere a lungo se il sonno, sospendendo la coscienza, non intervenisse a interrompere la continua comunicazione, l’incessante dialogo che nel periodo di veglia coinvolge le cellule della parte superiore del nostro cervello»[ivi, p.57].

Possiamo sospendere il nostro fare?

La sospensione non sembra appartenere al modello di sviluppo che ci ha portati qui nell’era dell’Antropocene. L’accelerazione, la cecità e la difficoltà di “mettere a riposo” il sistema hanno generato la cultura in cui viviamo tutti i giorni [cfr ibidem, 2021:58]. La caratteristica principale della cultura dell’Antropocene è quindi il suo modo di trattare la Terra: questa deve essere conquistata in ogni sua parte e sfruttata impadronendosi di tutte le risorse fino all’esaurimento, fino al punto di pensare di poterla abbandonare al suo destino per cercarci una sistemazione su un altro pianeta.

Secondo Rosi Braidotti viviamo in un processo rivoluzionario creato dall’uomo il quale «anela a un salto di qualità fuori dal familiare, confida nelle possibilità, ancora inesplorate, aperte dalla nostra posizione storica nel mondo tecnologicamente mediato di oggi» [Braidotti, 2014:42]. In questo senso l’idea di colonizzare un altro pianeta grazie all’utilizzo della tecnologia non è così fantasiosa come si potrebbe pensare è il caso dell’imprenditore Elon Musk, co-fondatore di Paypal, nonché presidente di SolarCity che si propone, proprio attraverso quest’ultima società, di ridurre il riscaldamento globale tramite l’utilizzo di energie rinnovabili riducendo il rischio dell’estinzione umana e di catastrofi naturali con la proposta di stabilire una colonia umana su Marte[2]. Vi è un lato positivo riconosciuto nel modello di sviluppo e in particolare nel progresso tecnologico e come afferma la stessa Braidotti «l’umanità sta attraversando una mutazione esistenziale della specie dove ciò che cambia non è il nostro corpo ma la nostra mente che sta generando un nuovo pensiero: il pensiero postumano» [ivi, 2014:43]. È come se il processo rivoluzionario in atto offrisse alla nostra specie “nuovi poteri”.

Cambiamento positivo o catastrofe?

Andrea Angelini, filosofo e ricercatore afferma che «l’immaginario promosso da un rapporto con la natura mediato scientificamente può passare facilmente dal progresso alla catastrofe – ormai inevitabile secondo alcuni; e anche a questo riguardo alla scienza può essere attribuito alternativamente il ruolo di salvatrice o quello di responsabile dell’apocalisse» [Angelini, 2020:15]. Non conosciamo, ad esempio, le possibili implicazioni e conseguenze di una colonizzazione umana di Marte: potrebbe accadere che, invece di risolvere quella che sembra un’apocalissi preannunciata si generino altre catastrofi e dopotutto la recente storia ci insegna che «i disastri offrono gli esempi più lampanti della nostra incapacità di convivere in sicurezza e in modo affidabile con i prodotti della nostra ingenuità tecnologica» [Jasanoff, 2010:14].

Tra il 1824 e il 1832 Giacomo Leopardi scriveva Le operette morali[3] prendendo già di mira quell’antropocentrismo distruttivo e minaccioso per l’estinzione della specie che opera oggi nell’era dell’Antropocene. Nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo, che fa parte dell’opera, un folletto e uno gnomo discutono del fatto che tutti gli uomini sono morti. Lo gnomo si domanda che cosa penserebbe uno di loro, se resuscitato, vedesse che tutto esiste sul pianeta anche senza uomini. Ora che gli umani sono tutti morti nessuno ne sente la mancanza. Gli umani, con la loro presunzione, si stanno meritando l’estinzione?

Anastasia Francaviglia

[1] All’interno dell’Olocene si è svolto l’intero sviluppo storico della civiltà umana, che nel senso comune inizia con la scoperta dell’agricoltura, circa 10.000 anni fa.

[2] https://www.ilmessaggero.it/t/elon-musk/

[3] Le Operette morali sono una raccolta di ventiquattro componimenti in prosa, divise tra dialoghi e novelle dallo stile medio e ironico, scritte tra il 1824 ed il 1832 dal poeta e letterato Giacomo Leopardi. Sono state pubblicate definitivamente a Napoli nel 1835, dopo due edizioni intermedie nel 1827 e nel 1834.

Bibliografia

Aime M., Favole A., Remotti F. (2020) Il mondo che avrete, Utet Edizioni, Milano

Benadusi M. (2015) Antropologia dei disastri, in Antropologia pubblica vol.1-2

Braidotti R. (2014) Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi srl, Roma

Crutzen P.J. 2002, “Geology of Mankind” in Nature, vol 415

Jasanoff S., Benessia A., Funtowicz S. (2010) L’innovazione tra utopia e storia, Codice Edizioni, Torino

Lai F. (2020). Antropocene, Editpress, Firenze.

Yuval N. H. (2021), “Tre lezioni per il futuro”, in Internazionale n.1400 anno 28

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