Educare i bambini al conflitto. Lo stiamo facendo bene?

Educare i bambini al conflitto? Ma il conflitto non era quel qualcosa da dover evitare, sabotare e far in modo che non accadesse più? 

Fin dai tempi antichi, e ancora oggi, il conflitto è sempre stato visto in ottica negativa. La visione negativa della parola “conflitto” deriva da una confusione terminologica che fa sì che venga associata ed usata in maniera sovrapponibile a quelle di “violenza” e di “guerra” (Novara, 2011). Ma siamo sicuri che sia veramente così? Il conflitto è sempre qualcosa di negativo? Essere in divergenza con qualcuno vuol dire essere violenti? Mettere fuoco all’auto di qualcuno scomodo per noi è semplicemente essere in disaccordo? 

Violenza e conflitto: concetti sovrapponibili o significati diversi?

Oggigiorno siamo abituati a sentir i media parlare di conflitto sia in occasione di una guerra tra popoli, sia per indicare un diverbio acceso tra vicini di casa o una sparatoria tra delinquenti e forze dell’ordine, ecc.. Proprio per questo, tutti noi quando sentiamo parlare di conflitto siamo portati a provare sentimenti di paura, sgomento ed incertezza. In realtà occorrerebbe distinguere i fatti che riguardano la violenza (come le guerre e gli omicidi) dai conflitti che avvengono naturalmente in tutte le relazioni umane, compresi i litigi tra bambini.

I bambini nel loro rapportarsi con i loro coetanei, nelle situazioni di contrarietà, sentono la necessità di autoaffermarsi e di prevalere e ciò rappresenta sicuramente un processo di crescita e di sviluppo: per questo, i conflitti/litigi rappresentano un’occasione per conoscere meglio sé stessi e le proprie potenzialità. Inoltre, quando due coetanei litigano, imparano a porre dei limiti alla propria volontà  a misurarsi ed accettare la presenza dell’altro.  Il conflitto quindi non deve essere visto come il nemico da scacciare affinché le relazioni siano sane, ma come una possibilità che permette di imparare a regolare le proprie emozioni senza ricorrere alla violenza (Novara, 2013).  

 Che cos’è il conflitto e che cos’è violenza?

Il conflitto è quel qualcosa che si sviluppa in maniera naturale in tutte le relazioni vitali. Indica «contrarietà, divergenza: di opinioni, di interessi, di punti di vista ma non presuppone alcun elemento di dannosità irreversibile» (Novara, 2013).  Le comunicazioni conflittuali rappresentano una modalità per salvaguardarsi, per avere una regolazione migliore di sé: il conflitto, quindi, prevede una relazione.

La violenza è invece qualcosa di ben diverso: «indica un’azione che sospende la relazione e prevede di risolvere il problema eliminando l’avversario» (Novara, 2013). L’OMS la definisce come «l’utilizzo intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro sé stessi, un’altra persona, o contro un gruppo o una comunità, che determini o che abbia un’alta probabilità di produrre morte, danno psicologico, cattivo sviluppo o privazione» (World Health Organization, 2002). 

Il violento quindi, non entra in relazione con l’altro ma sopprime intenzionalmente quest’ultimo come se questo fosse il problema, provocando così un danno irreversibile. Quando due bambini si mordono ad esempio per avere lo stesso giocattolo, non è violenza, in quanto manca l’intenzionalità. La violenza non è una conseguenza del conflitto ma è il non saper stare nel conflitto (Novara, 2013).  

Alla luce di quanto sopra, occorre riflettere sull’importanza del conflitto inteso come occasione di confronto e di crescita e di quanto sia importante poter insegnare ai bambini a saper litigare, non bloccando i loro conflitti come se fossero forme di violenza. 

Come si può insegnare ai bambini a saper stare nel conflitto?

Daniele Novara, direttore del CPP (Centro Psico-Pedagogico) di Piacenza e Milano, partendo dall’idea che la relazione conflittuale è una vera e propria competenza, ha ideato il metodo maieutico litigare bene, che aiuta i bambini a saper litigare e a cavarsela da soli nelle proprie relazioni conflittuali (Novara, Di Chio, 2013). 

Il metodo litigare bene è fondato su quattro passaggi “due passi indietro, due passi avanti” e l’unica condizione affinché il metodo funzioni è quella di dover essere rispettato da tutte le figure adulte che ruotano intorno ai bambini. Dunque, come ci si deve comportare quando si vedono due bambini nel bel mezzo di un litigio? 

Il primo passo indietro consiste in ciò che gli adulti non devono fare, ovvero non devono cercare il colpevole. Se facciamo mente locale, tutti ricorderemo sicuramente l’adulto di turno che metteva il naso nei nostri litigi con amici e fratelli e che con aria arrabbiata ed inquisitoria ci chiedeva “chi ha iniziato per primo?” “chi ha sbagliato?” Questo modo di fare porta ad un’idea di giustizia poco valida e che fa scaturire forme accusatorie sull’ipotetico colpevole. 

L’adulto quindi non deve giudicare nè farsi coinvolgere in maniera diretta, a meno che il suo intervento non sia necessario perché i bambini rischiano di farsi male. L’adulto dovrebbe prendersi il rischio di sentirsi inutile e non capace di gestire il conflitto tra i bambini  e lasciarli agire con le loro capacità senza che questi siano condizionati. Il secondo passo indietro, ben collegato al primo, consiste nel non fornire la soluzione ai litigi dei bambini: non imporre la pace, non dare ragione ad uno dei due o ancora non indicare la procedura giusta. 

Il primo passo avanti è invece quello di lasciarli parlare tra di loro, incoraggiarli a tirar fuori al meglio la propria visione. Gli adulti, ad esempio, potrebbero non usare la classica espressione “finitela!”, ma proporre ai bambini di continuare a dire ognuno la  propria versione, affinché siano  liberi di esprimere liberamente le proprie emozioni. Questo modo di fare funziona come decantazione delle emozioni stesse, trasformandole in momenti di comunicazione (Judy Dunn, 1990).

Il secondo passo avanti consiste nel favorire il raggiungimento di un accordo tra i bambini  attraverso il dialogo, processo che può essere incoraggiato chiedendo, ad esempio: “Come potete mettervi d’accordo?” “Vi è venuta in mente una soluzione utile per entrambi?” (Novara, 2013).

In conclusione, possiamo dire che insegnare ai bambini a litigare con metodo fa sviluppare la competenza conflittuale che permetterà di conoscere meglio sé stessi e gli altri e di vivere le relazioni sapendo gestire le emozioni attraverso il dialogo senza ricorrere alla violenza.

Martano Francesca

 Francesca Martano

Info

                                                                                                                              

 

 

Bibliografia

Judy Dunn, La nascita della competenza sociale, Raffaello Cortina, Editore, Milano 1990.

Novara. D, Litigare fa bene, insegnare ai propri figli a gestire i conflitti per crescerli sani e felici, BUR Rizzoli, Milano, 2013. 

Novara. D; C. Di Chio, Litigare con metodo. Gestire i litigi dei bambini a scuola, Erikson, Trento 2013.

Novara. D; La grammatica dei conflitti. L’arte maieutica di trasformare la contrarietà in risorse, Edizione Sonda, Casale Monferrato, 2011.

Word Health Organization, World report on violence and health: summary, Geneva 2002, p.4 (traduzione a cura dell’autore)

Sitografia

https://cppp.it/approfondimenti/dettaglio/per-professionisti/la-gestione-dei-conflitti-come-antidoto-alla-violenza-cpp

https://cppp.it/approfondimenti/dettaglio/articoli/la-distinzione-fra-conflitto-e-violenza-una-necessita-imprescindibile-CPP

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