Mi scusi, avvocatA…?

Immagine realizzata da Silvia Serena Bramblla

Immaginiamo di trovarci in uno studio legale per una consulenza, e alla fine dell’appuntamento vogliamo ringraziare Daniela, colei che ci ha seguito. Nella testa iniziano i primi dubbi: “la ringrazio, avvocato”, “la ringrazio, avvocatessa”, “la ringrazio, avvocata”, tant’è che alla fine ce ne usciamo con un “la ringrazio” e basta. Ma se di fronte a noi ci fosse stato Mario, i dubbi sarebbero stati così numerosi, o avremmo semplicemente risposto “la ringrazio, avvocato”? 

Perché dunque con i nomi femminili professionali possono emergere queste difficoltà? Sono solo parole, o hanno anche un risvolto sociale? E – ancora – che cosa possiamo dirci come professionisti dell’educazione? 

La dimensione linguistica

«Un giorno eleggono al Senato una donna, e nelle redazioni si crea lo smarrimento. Com’è il femminile di senatore? […]. Nessuno pensa che i nomi in –tore fanno normalmente in -trice, come da imperatore si fa imperatrice» (Gabrielli, 1976, p.94). 

Da un punto di vista meramente linguistico, la questione dei nomina agentis femminili non sussiste. Infatti, la lingua italiana – diversamente da altre che sono “neutrali” – è una lingua gendered, ossia il genere grammaticale segue quello di ciò che designa, e dunque il maestro/la maestra, il gatto/la gatta. Non basta però semplicemente sostituire la o con la a nel passaggio dal maschile al femminile (e viceversa), ma è dal dizionario – ad esempio lo Zanichelli (come in questo caso) – che possiamo vedere che ci sono quattro tipi di coppie maschile/femminile:

  1. I nomi indipendenti o di genere fisso, che hanno una radice diversa, come fratello/ sorella, uomo/donna.
  2. I nomi di genere comune, che hanno un’unica forma per il maschile e femminile, come il/la barista, il/la cliente. È necessario l’articolo per capire il genere che designa, e solitamente corrispondono a nomi in –ista o –atra (lo/la specialista), oppure nomi corrispondenti a forme sostantivate del participio presente di un verbo (il/la cantante) o ancora quasi tutti i nomi che finiscono con –a di origine greca (un/un’atleta, lo/la stratega).
  3. I nomi di genere promiscuo, che, come quelli comuni, hanno un’unica forma per il maschile e il femminile, e per capire il genere non si cambia l’articolo ma serve una specificazione al sostantivo (la tigre maschio). Solitamente questi sono frequenti per gli animali, ma ci sono esempi anche per gli esseri umani, come la spia, la guardia, il pedone. Sarà il contesto a farci capire il genere della persona a cui ci stiamo riferendo.
  4. I nomi di genere mobile, che formano il femminile mutando la desinenza o aggiungendo un suffisso. Ci sono delle eccezioni (come re/regina) ma generalmente ci si riferisce alla coppia o/a (maestro/maestra), la coppia e/a (infermiere/infermiera), la coppia -tore/-trice (direttore/direttrice), la coppia -sore/-sora (incisore/incisora).

Date queste precise regole perché allora ci sono alcune professioni femminili che ci suonano strane? 

Maestra e ministra… “Massì, sono solo parole!” 

Maestra e ministra sono termini da sempre esistenti in ambito linguistico, ma differente è invece la loro presenza nella realtà storica. «Solo da pochi decenni le donne occupano posizioni prestigiose, in precedenza esclusivamente riservate agli uomini. L’ambiguità lessicale nel designarle rivela la difficoltà di accettare come normale un fatto che è ancora percepito come anomalo o eccezionale. Se alcuni agentivi femminili sembrano “ridicoli”, ciò non dipende dai vocaboli, ma dai pregiudizi di cui siamo portatori e che quei vocaboli vanno a intaccare. Sembra il nome a suonare strano, ma in realtà è il significato a destare la diffidenza» (Sapegno, 2010:140). 

Se dunque un secolo fa era difficile che una donna svolgesse la professione di avvocata, così come un uomo l’ostetrico, adesso la società è cambiata, ed è importante utilizzare i termini corretti non solo da un punto di vista grammaticale, ma anche (e soprattutto) perché esiste «una concatenazione tra presa di coscienza linguistica e coscienza sociale e politica molto stretta» (Sabatini, 1987:99). Spesso infatti sono le stesse donne a sentirsi squalificate dall’uso del femminile, come se al titolo professionale maschile venisse implicitamente dato un valore maggiore di competenze e prestigio. O ancora, pretendere di essere chiamate al femminile, come dovrebbe essere seguendo la lingua italiana, comporta molto spesso l’essere definite “femministe” (Gheno, 2019). Che di per sé non avrebbe nulla di male – si tratta di dichiararsi a favore di una parte della popolazione che per molto tempo non ha avuto gli stessi diritti di altre – ma potrebbe essere importante smettere di pensare che essere chiamata avvocata sia in qualche modo più “femminista” che essere chiamata professoressa, quando entrambe non sono che la forma per designare un ruolo ricoperto da una donna.

Se però rimaniamo dentro queste gabbie culturali anacronistiche, siamo noi stessi i primi a perpetuare modelli societari sessisti, in cui gli uomini sono “naturalmente” superiori alle donne. Il genere invece arriverebbe a non contare se chiamassimo le professioniste al femminile esattamente come chiamiamo al femminile, senza alcuna esitazione, le donne in professioni in cui siamo “da sempre” abituati alla loro presenza (un esempio su tutti, la maestra). 

È una scelta consapevole, oltre che linguisticamente corretta. 

Certo non bastano solo le parole a modificare la realtà, ma allo stesso tempo queste diventano anche un atto identitario: sanciscono – e rendono visibile – la presenza delle donne e degli uomini in ciascun settore lavorativo, dando pari valore e riconoscimento a ciascuno. «E pazienza se ad alcuni le parole “suonano male”: ci si può abituare» (Gheno, 2019:12).

Perché è importante abituarsi, specie come professionisti dell’educazione? 

Perché, non usare queste parole rischia di restituirci un mondo statico e conservatore, che non dà valore e visibilità a modelli di società differenti, di un mondo lavorativo in cui anche le donne ricoprono ruoli apicali, e in cui uomini ricoprono ruoli che erano considerati “femminili”. Rendere familiari queste parole, – scegliendo intenzionalmente di usarle – le porterà ad essere scontate, comuni, viste, cosicché ciascuna Daniela vorrà dirsi (e volersi sentire chiamata) “avvocata” e non più “avvocato”.

E forse ancora di più, come professionisti dell’educazione, dovremmo porre attenzione alla scelta delle parole, ben sapendo che queste non sono mai neutre, ma sottendono impliciti assunti, spesso dati per scontati (Schein, 1999). Fermarsi a riflettere su quest’ultimi, arrivare ad averne consapevolezza, e – ancora – ricordarsi che stesse espressioni possono avere una sfera di significato differente tra persone e culture (Sclavi, 2003), risultano aspetti essenziali del bagaglio professionale educativo. 

Sono attenzioni che ciascun professionista dell’educazione dovrebbe avere, ma sono anche aspetti che dovrebbero essere messi in luce con le persone con cui si lavora. E quindi l’invito è quello di farci caso alle parole, di chiedersi il perché di determinate scelte linguistiche, di interrogarsi sulle proprie concezioni implicite e di quelle della società; questo permetterà a ciascuno di stare nel mondo con uno sguardo consapevole, nel rispetto e nel valore di ciascuna persona (Freire, 1971).

 

silvia brambillaSilva Serena Brambilla

Info

 

 

Bibliografia

Freire, P., Pedagogia degli oppressi, Mondadori Editore, Milano, 1971

Gabrielli, A., Si dice o non si dice? Guida pratica allo scrivere e al parlare, Mondadori Editore, Milano, 1976.

Gheno, V., Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, Effequ Editore, Firenze, 2019

Sabatini, A., Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, Estratto da “Il sessismo nella lingua italiana” per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, 1987.

Sapegno, M. S., Che genere di lingua? Sessismo e potere discriminatorio delle parole, Carocci Editore, Roma, 2010.

Schein, E., La consulenza di processo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1999.

Sclavi, M., Arte di ascoltare e mondi possibili, Mondadori Editore, Milano, 2003.

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