Quando il volontariato diventa lavoro nero

 

Immagine di Massimiliano Mariani (modificata)

“La Repubblica italiana riconosce il valore sociale e la funzione dell’attività di volontariato come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo,ne promuove lo sviluppo salvaguardandone l’autonomia e ne favorisce l’apporto originale per il conseguimento delle finalità di carattere sociale, civile e culturale (…)”

– Legge-quadro sul volontariato, art. 1

Tutti rispettano e ammirano chi svolge un’attività di volontariato, di qualsiasi tipo. A volte ci si chiede se si può contribuire personalmente. Qualcuno lo farà, magari spinto da amici e conoscenti, incuriosito o semplicemente desideroso di “fare gruppo”.

In Italia in effetti i numeri sono rilevanti: ci sono quasi 7 milioni di volontari, di cui 4 agiscono in entità organizzate, mentre 3 operano individualmente. Una realtà molto variegata, soprattutto quella delle varie associazioni di volontariato, tra cui spiccano per l’importanza cruciale della loro azione quelle che operano in ambito sanitario: queste sono al terzo posto in Italia per numero, il 16% del totale (dati ISTAT 2013). Al primo posto figurano le associazioni con finalità religiose (23%) e al secondo quelle con finalità ricreative e culturali (17%). Vi sono poi anche associazioni che si occupano di sport, ambiente, istruzione e dei più disparati settori.

Cosa dice la legge

In passato si è atteso a lungo che il mondo del volontariato ricevesse una disciplina normativa adeguata. La legge-quadro sul volontariato (legge n. 266 dell’11 Agosto 1991) ha dettato finalmente le norme da seguire nel settore e ha tentato di risolvere l’annosa questione del lavoro volontario che, in quanto fenomeno sociale di notevole portata,è sottoposto a un rischio serio di sfruttamento. Inoltre, è attualmente in attesa di attuazione una legge delega al Governo sul terzo settore (L. 106/2016) che interesserà perlopiù l’aspetto fiscale delle ONLUS.

Tornando alla legge del 1991 l’art. 2, al primo comma, dà una definizione di “attività di volontariato”: si tratta di quella attività prestata “in modo personale, spontaneo e gratuito”. Si continua poi precisando che l’organizzazione di cui il volontario fa parte non deve avere fini di lucro, neanche indiretto, ma solo fini di solidarietà.

Al comma 2, si legge che l’attività del volontario “non può essere retribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario”. Si apre però alla possibilità di un rimborso delle spese “effettivamente sostenute per l’attività prestata”, entro limiti stabiliti dalle associazioni stesse. Pensiamo ad esempio al viaggio del volontario da casa sua alla sede operativa, alla benzina, all’eventuale pedaggio autostradale. Ma non solo: possiamo aggiungere l’acquisto della divisa, degli scarponcini antinfortunistici e così via. Insomma, è ben possibile comprendere l’inserimento di una tale disposizione, considerata la gratuità del lavoro prestato e il tempo speso dal volontario. Si tratta tuttavia di una norma che si presta ad essere sfruttata da chi ha invece ben altre esigenze.

Uno scandalo nazionale

Su questo argomento ha fatto recentemente scalpore un servizio andato in onda il 10 aprile 2016 sul canale televisivo Italia1, per il noto programma Le Iene, che denunciava l’esistenza di intere organizzazioni di volontariato fittizie operanti in ambito sanitario, che perseguono indirettamente fini di lucro e occupano quasi del tutto lavoratori in nero, mascherati da volontari.

Queste organizzazioni si occupano di soccorso, un settore che in Italia è quasi totalmente affidato al volontariato, ma per cui la legge non impedisce di assumere regolarmente dipendenti, nel caso ve ne sia necessità. L’articolo 3, comma 4, della legge-quadro infatti stabilisce che “le organizzazioni di volontariato possono assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo esclusivamente nei limiti necessari al loro regolare funzionamento.

Tuttavia, per evitare i costi derivanti dal lavoro dipendente regolare, molte ONLUS hanno escogitato l’escamotage di reclutare e formare persone che risultano come volontari, salvo poi instaurare con essi un rapporto di lavoro de facto. Fanno infatti firmare a questi supposti volontari una dichiarazione scritta in cui attestano di ricevere un rimborso spese, ma poi li trattano come veri e propri dipendenti, e in alcuni casi assegnano loro turni giornalieri da 10 ore o più: con qualunque termine si definisca questo rapporto, certamente non è volontariato.

Non lo è perché non è gratuito, non lo è perché viene fatto per fini molto lontani da quelli di solidarietà propugnati dalla legge-quadro del 1991, e non lo è anche perché una persona che svolge questa attività, con queste modalità, sarà sempre impossibilitata ad avere un “vero” lavoro, un lavoro regolare. Tanto più che i soldi utilizzati per pagare questi rimborsi spese sono pubblici, ossia sono quelli con cui le varie aziende regionali di emergenza-urgenza pagano le convenzioni 118 alle associazioni. Questi fondi dovrebbero essere destinati a coprire le spese sostenute dall’associazione per la benzina, per l’acquisto e la manutenzione delle ambulanze e degli altri mezzi utilizzati, per la gestione della sede operativa e per lo stipendio dei dipendenti regolari.

Questa prassi, molto diffusa nella capitale ma sicuramente presente anche in altre regioni italiane, ha conseguenze di non poco conto: i finti volontari non hanno ferie, malattie, controlli sanitari stringenti. Si devono pagare personalmente la divisa, non vengono loro pagati i contributi e per lo Stato sono sostanzialmente disoccupati. Se non provvedono autonomamente, non avranno neanche una pensione. Si parla di persone non professionalmente qualificate, che hanno fatto il classico corso per diventare soccorritore 118, ma in alcuni casi anche di infermieri e altre figure qualificate, come gli operatori socio-sanitari (i cosiddetti OSS).

La situazione allarmante raccontata nel servizio potrà forse essere, come alcuni hanno commentato, estremizzata. Una punta della degradazione del volontariato e delle figure connesse. Tuttavia, anche se la situazione generale fosse meno grave, saremmo comunque di fronte a un problema di grande portata non solo sociale, ma anche economica e giuridica. Le immediate conseguenze non vanno a colpire i soli lavoratori in nero di queste associazioni, ma anche i pazienti trasportati, i quali potrebbero trovarsi di fronte un soccorritore stremato da 12 ore di turno, o un autista talmente stanco da addormentarsi alla guida. Perché questi lavoratori non hanno nemmeno un’associazione di categoria che li protegga o che faccia valere i loro diritti su un piano se non nazionale, almeno regionale. È perciò fondamentale contrastare ed espellere dal sistema del soccorso queste realtà, e il compito in questo caso spetta non alle aziende regionali di emergenza-urgenza (ad esempio ARES nel Lazio, AREU in Lombardia ecc..) ma alla Polizia tributaria.

Prima dell’inversione di rotta emersa nel mese di marzo 2017, che porterà alla loro completa abolizione, anche i buoni lavoro (i cosiddetti “voucher”) erano ampiamente utilizzati in questo settore. Infatti, grazie al rafforzamento della loro applicazione avvenuto nel 2015 con il Jobs Act,essi offrivano una buona occasione per retribuire volontari che svolgevano turni “in più” rispetto a quelli normalmente richiesti dall’associazione. Questo metodo aveva un tetto massimo di retribuzione raggiungibile (7.000 euro in un anno), che ne limitava le possibilità di sfruttamento. Con la loro abolizione, ci si chiede se i voucheristi torneranno a far parte dei lavoratori in nero o se si prospetteranno altre soluzioni per le associazioni.

Le cause

Il territorio italiano, si sa, è spesso ostico quando si parla di soccorsi. Ci sono moltissimi comuni, anche molto piccoli, per non parlare dei centri abitati più isolati e delle difficoltà di comunicazione causate dalla conformazione geografica. Bisogna però assicurare ad ogni singolo abitante, in caso di emergenza, l’arrivo di un mezzo idoneo in tempi ragionevoli. Quello che forse non tutti sanno è che per lo più la copertura del territorio è assicurata da associazioni di volontari.

In alcuni casi nelle zone lasciate scoperte dalle ONLUS vere e proprie, oppure nelle grandi città, dove il numero giornaliero di chiamate al 118 è altissimo, sono nate anche associazioni come quelle denunciate dal servizio televisivo: queste sono delle vere e proprie associazioni a scopo di lucro, spesso non hanno un solo vero volontario al loro interno e sono gestite quasi come delle aziende.

Però accade anche che alcune ONLUS “regolari” si trovino in difficoltà per la mancanza di volontari e che, pur di mantenere la convenzione stipulata con l’azienda regionale, arrivino ad attuare ogni espediente possibile. Tutto ciò spesso viene tollerato dallo Stato e dalle autorità perché sostanzialmente, allo stato attuale della legge, non c’è una vera alternativa. Assumere solo dipendenti sarebbe troppo costoso per le associazioni, e in Italia non esiste una professione riconosciuta di soccorritore o paramedico, a differenza di molti altri paesi.

Questa è la dimostrazione che un sistema del soccorso totalmente (o quasi totalmente) basato sul volontariato oggigiorno non è più sostenibile, visto l’altissimo numero di interventi e la crescente necessità di copertura del territorio da parte delle ambulanze. Allora forse è giunto il momento di fermarsi a riflettere in modo più ampio, dal punto di vista economico-giuridico, sul metodo di gestione del mondo del soccorso che attualmente è adottato in Italia dal nostro sistema sanitario.

Se non si stabiliscono regole chiare e definite si rischia di arrivare a storture che non dovrebbero avere spazio in nessun settore, men che meno nel volontariato. Ancor meno in quel settore del volontariato che si occupa della vita e della salute delle persone. Non solo, se le regole vengono stabilite ma se ne tollera la sistematica e aperta violazione, a favore del risparmio, si vanifica il lavoro di chi invece le rispetta.

Alice Martina Garavaglia

Info

 

 

 

Normativa di riferimento

Legge 11 agosto 1991, n. 266, cd. Legge-quadro sul volontariato: http://www.lavoro.gov.it/archivio-doc-pregressi/AreaSociale_AgenziaTerzoSettore/Leqqe_266_91.pdf

Bibliografia

Occhino, A. (2012), Volontariato, diritto e modelli organizzativi, Milano, Vita e Pensiero.

Sitografia

ISTAT. Attività gratuite a beneficio di altri, anno 2013. Report sul volontariato in Italia, 23 luglio 2014: http://www.istat.it/it/files/2014/07/Statistica_report_attivita_gratuite.pdf?title=Attivit%C3%A0+gratuite+a+beneficio+di+altri+-+23%2Flug%2F2014+-+Testo+integrale.pdf

Emergency Live. Ambulanze a Roma, falso volontariato pagato in nero. Quanto è credibile il servizio delle Iene di Italia 1?. 11 aprile 2016: http://www.emergency-live.com/it/news/ambulanze-a-roma-falso-volontariato-pagato-in-nero-quanto-e-credibile-il-servizio-delle-iene-di-italia-1/

No Profit Italia. Commento alla legge-quadro sul volontariato: http://www.noprofit.org/terzo/legge266b.htm

Il Fatto quotidiano. Ambulanze, lavoratori del 118 contro volontari: “Poco formati e fanno turni fino a 60 ore”. A Ferrara parte indagine. Di Luisiana Gaita, 17 settembre 2016: http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/09/17/ambulanze-lavoratori-del-118-contro-volontari-poco-formati-e-fanno-turni-fino-a-60-ore-a-ferrara-parte-indagine/3036035/

Il Quotidiano Italiano – Bari. Caos 118: lavoratori a nero con la divisa da volontari. Iene, fatevi un giro in Puglia. Di Antonio Loconte, 11 aprile 2016: http://bari.ilquotidianoitaliano.com/l-editoriale/2016/04/news/anche-puglia-volontari-del-118-lavoratori-nero-pagati-coi-soldi-pubblici-114161.html/

Soccorritori Italiani 118. Volontari 118 a stipendio fisso grazie ai finti rimborsi. 18 ottobre 2016: http://soccorritoriitaliani118.altervista.org/volontari-118-stipendio-fisso-grazie-ai-finti-rimborsi/

 

2 Replies to “Quando il volontariato diventa lavoro nero”

  1. Complimenti per il bellissimo articolo illuminante e lapalissiano. Come potrei non condividere pienamente tutto quello che hai scritto….sono più di 20 anni che Coes italia denuncia le stesse cose. GRAZIE

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