L’adolescente con disabilità: cosa limita lo sviluppo della sua identità?

 

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Immagine a cura di Giulia Colombo

Vi è un momento nel processo di sviluppo dell’individuo in cui il noto paragone tra vita e viaggio assume maggiore rilevanza: l’adolescenza. Durante questo periodo dell’esistenza umana, più che paragonare la vita a un viaggio, la si potrebbe paragonare ad un “erranza”, ossia ad un vagabondare senza meta, ad un cammino connotato dal dubbio e dall’opacità. Questo percorso, con non poche difficoltà, condurrà il giovane adolescente verso la costruzione di un’identità di tipo sociale adulto.

Ma come vive questo momento della vita il ragazzo con disabilità?

Anche nel percorso di crescita della persona con disabilità arriva, infatti, un momento in cui sboccia questa turbolenta fase della vita, ma, se per gli adolescenti “normali” si può parlare di “età dell’oro”, per i ragazzi con disabilità l’arrivo di questo stadio rischia di trasformarsi in “età della stagnola”, ovvero in una fase della vita in cui si è costretti a indossare un falso sé, quello dell’eterno bambino perché il percorso di maturazione rischia di arrestarsi alla fase dell’ “infanzia perenne”.

Il viaggio errante del giovane con disabilità nell’adolescenza presenta tante frontiere. Come è noto, durante questa fase, si gettano le basi per la maturazione affettiva, per la futura identità adulta e per quella sessuale, ma, affinché questo avvenga, è necessario che si verifichi quella separazione tra madre e figlio fondamentale per costruire la propria identità di soggetto indipendente. Il bambino con disabilità è, però, considerato molto debole e sempre bisognoso di supporto e ciò dà origine a un legame madre-bambino che rischia di protrarsi troppo a lungo nel tempo e di diventare pericoloso in quanto potrebbe impedire al giovane di superare la frontiera che separa la nursery dal mondo esterno.

 I genitori del bambino con disabilità, proprio perchè lo considerano fragile, decidono di non lasciare che il proprio figlio spicchi il volo verso l’età adulta e costruiscono intorno a lui luoghi artificiali e astorici in cui si rischia di non dare risposta a quella domanda di identità, che, col passare del tempo, rischia di diventare un’eco sempre più lontano. Il giovane con disabilità, considerato sempre piccolo e fragile, non ha mai la possibilità di incontrare la sofferenza e l’insuccesso perché gli vengono evitati quei momenti di passaggio che permettono di mettersi alla prova, di conoscere le proprie potenzialità ed inclinazioni, di fare i conti con i propri limiti.

Al giovane ragazzo con disabilità non viene data la possibilità di esercitare la propria intenzionalità sul mondo esterno, di attribuire un senso alla realtà che lo circonda; c’è sempre qualcuno che si sostituisce a lui nelle scelte e nei vari passaggi della vita fondamentali per la costruzione di un sé autonomo. In realtà il bambino/ragazzo con disabilità, necessita di essere pensato dagli adulti che lo circondano come un soggetto in crescita, in mutamento, che assumerà un ruolo nel suo futuro: il rischio è che questa situazione di fissità dei ruoli si protragga troppo a lungo nel tempo, esentando il giovane disabile da qualsiasi ruolo attivo e responsabile. In tal modo l’educazione rischia di focalizzarsi esclusivamente sulle dimensioni della cura medica e della protezione, impedendo al ragazzo di svolgere esperienze di decisione. Ciò è particolarmente evidente nella fase adolescenziale, momento in cui il ragazzo dovrebbe “abbandonare” il nido familiare e tutti gli elementi protettivi che lo connotano per raggiungere un’identità di tipo sociale adulto; nel caso del soggetto con disabilità, però, tra le due identità, quella di bambino e quella di adulto, sembra esserci uno spazio vuoto, una terra di nessuno che spesso non verrà mai attraversata.

Tutti quei ruoli sociali attivi che consentono al giovane di tendere verso la maturazione conoscono, nel ragazzo disabile, la mortificazione e il fallimento, e ciò comporta anche il continuare ad usare nel macro-sociale modalità di relazione del micro-sociale, per esempio quelle esageratamente affettuose che continueranno a connotarlo come bambino.

L’adolescenza è per tutti un’età di passaggio fatta di turbolenze, cambiamenti, di crisi e disagi; è un’età in cui genitori e figli si preparano a separarsi e cominciano a lavorare sull’elaborazione del lutto causato da questo distanziamento. Per il giovane con disabilità tutto diventa più complesso perché né lui, né i suoi genitori riescono a preparare questa separazione dolorosa, ma necessaria per percorrere in autonomia il cammino verso la maturazione. Alla base di questa difficoltà da parte dei genitori vi è la paura di dover affrontare un giorno una separazione ineludibile, ovvero quella prodotta dalla propria morte. Per tale ragione, diventa fondamentale avviare un lavoro di progettazione che possa permettere ai genitori di capire che preparare la separazione in età adolescenziale renderà meno difficile programmare il momento del “dopo di noi”, il momento più temuto da tutti i genitori di ragazzi con disabilità.

Nella costruzione dell’identità e dell’autonomia del soggetto con disabilità sicuramente sono stati compiuti importanti passi avanti rispetto al passato, ma permangono evidenti lacune. Come sosteneva Meltzer, attraversare l’adolescenza significa oscillare continuamente tra quattro mondi:

  1. la famiglia, all’interno della quale l’adolescente trova sempre supporto e soccorso;
  2. gli adulti, verso il quale si cerca continuamente di tendere;
  3. la realtà psicologica, quel mondo individuale nel quale l’adolescente si rifugia quando vive emozioni contrastanti;
  4. i coetanei, nella quale il giovane trova un supporto gruppale.

Purtroppo, per il giovane con disabilità le oscillazioni tra questi quattro mondi sono molto limitate, proprio perché egli tende a non uscire mai dalla famiglia; ne consegue che le altre realtà, gli altri “mondi” appena elencati, diventano irraggiungibili o avvicinabili soltanto in maniera frammentata. Perché avviene questo? Perché nonostante gli importantissimi passi avanti compiuti che, oggigiorno, permettono al soggetto con disabilità di essere protagonista anche di un percorso di inserimento lavorativo, si continua a negare a questi ragazzi la possibilità di vivere questa fase della vita?

La persona con disabilità ha bisogno di vivere tutte le fasi della propria esistenza, dall’infanzia all’adultità, passando anche e soprattutto per l’adolescenza, per poter costruire una volta per tutte la sua identità di persona specifica. Per tale ragione, il compito dei professionisti dell’educazione è quello di supportare e accompagnare questi ragazzi nelle fasi più complesse di questo lungo e faticoso cammino, per poi lasciarli liberi di vivere pienamente la propria esistenza adulta. In tutto ciò è fondamentale un’alleanza continua con i genitori, affinché recuperino la capacità di progettare per i propri figli. Solo in questo modo si potrà iniziare finalmente a parlare di “bisogni di normalità”, come li definisce Carlo Lepri, e non più di “bisogni speciali”. Ma perchè questo si realizzi, è necessario trovare altri adulti capaci di sognare sul futuro dei ragazzi con disabilità, di investire nelle loro potenzialità e di intenderli come soggetti in progettazione.                                                                                                                                                                                                                                                                 

Ines Scalise

Bibliografia

Augelli A., Erranze. Attraversare la preadolescenza, Franco Angeli, Milano, 2011

Caldin R., Succu F., (a cura di), L’integrazione possibile. Riflessioni sulla disabilità nell’infanzia, nell’adolescenza e nella vita adulta, Pensa Multimedia Editore, Lecce, 2004

Montobbio, E., Lepri, C., Chi sarei se potessi essere. La condizione adulta del disabile mentale. Edizioni del Cerro, Tirrenia, 2000

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