Dio è nel proiettile: rapporto tra religione e criminalità

 

  • 21 giugno 2014: durante la celebrazione eucaristica sulla piana di Sibari Papa Francesco si scaglia contro la mafia invocando la scomunica;
  • 6 luglio 2014: scoppia lo scandalo degli “inchini” ad Oppido Mamertina1;
  • 10 luglio: Francesco Milito, vescovo della diocesi, sospende le processioni come “gesto di cautela e riflessione”;
  • 16 luglio: in seguito a verifiche viene annullata la processione della Madonna del Carmelo a Vibo Valentia e Mons. Morosini, vescovo di Reggio Calabria-Bova, proibisce le soste durante le processioni, prescrivendo che durante le prestabilite “soste tecniche” non sia rivolta verso case o edifici.

Non è solo la cronaca ad influenzare la nostra percezione del rapporto religione-criminalità, anche il cinema e le serie tv ci restituiscono un legame tra questi due universi, basti pensare al personaggio di Salvatore Conte, uno dei protagonisti della serie televisiva Gomorra.

Affrontare il tema della religiosità dei mafiosi, o dei criminali in generale, apre lo scenario a molteplici piani di analisi: da una parte, occorre chiedersi che significato assumano le devozioni e le ritualità religiose e che ruolo svolga il ricorso alla fede all’interno di certi contesti, dall’altra è indispensabile valutare le posizioni che la Chiesa ha progressivamente espresso nella storia. [cfr. Dino, 2013].

«Lo studio delle organizzazioni mafiose lascia emergere il dato piuttosto singolare di una religione che diventa strumento di legittimazione, offrendo motivazioni agli atti criminosi, alleviando le paure e le angosce nutrite dagli affiliati per il proprio destino personale. […] la religione offre agli “uomini d’onore” e alle loro donne conforto, certezze e modelli identificativi. Aiuta ad attribuire sacralità e consenso alle scelte dell’organizzazione, prestigio all’autorità del capo; lenisce inquietudini e momenti di crisi che insorgono nella vita del singolo mafioso al momento di fornire spiegazioni al suo esistere, al suo dover morire e al suo potere di causare la morte. Il ricorso a una comune tradizione religiosa fa inoltre da sostrato alla coesione sociale del gruppo, costituendo la trama della memoria sociale, agendo come agenzia primaria di produzione di senso» [Ivi, p. 149-150].

L’ingresso formale di nuovi affiliati presso le mafie italiane è stato a lungo “consacrato” da una ritualità iniziatica analoga a quella religiosa.

Si ha testimonianza che la prima riunione della “Bella Società Riformata”(una proto-camorra napoletana diffusasi intorno alla prima metà dell’Ottocento) si sia svolta proprio nei locali di una chiesa ed è noto come la Madonna del santuario di Polsi, in Aspromonte, sia considerata la protettrice della ’Ndrangheta; furono i magistrati, nel 2009, a diffondere la notizia, che Domenico Oppedisano celebrava a Polsi gli incontri annuali della ’Ndrangheta a conferma una tradizione ben consolidata. Per quanto riguarda Cosa Nostra già dal 1877 si hanno tracce di una cerimonia di giuramento (la combinazione), pronunciato in presenza dei rappresentanti delle famiglie e contraddistinto da una puntura (punciuta) sul dito che preme il grilletto per sparare, da cui sgorga una goccia di sangue versata su un’immagine votiva che verrà poi bruciata nel palmo della mano del nuovo associato [cfr. Dino, 2008].

Le narrazioni che ricostruiscono il rituale rimandano al battesimo cattolico:

un padrino che si fa garante della di maturità e affidabilità; la presenza del fuoco, simbolo di purificazione e di rinnovamento; l’enunciazione delle regole del sodalizio, con l’ammonimento al neofita di osservarle a cui fa da contrappunto la rinuncia a Satana da parte della comunità cristiana che partecipa al battesimo; la presenza del sangue, che sostituisce l’acqua [cfr. Dino, 2008].

Si tratta di un cerimoniale che «affida la sua capacità di persuasione e coinvolgimento emotivo al simulacro di un solenne rituale religioso»[Ivi, p.46]. Ci si può in tal caso riconnettere alle riflessioni di Malinowski, il quale valorizza la funzione specifica del sacro: «nella religione il sacro agisce come una forza vitale che stringe i membri di un gruppo e, con lo stabilimento dei valori morali, opera un’integrazione della mente degli individui nelle crisi della vita, morte, pubertà, matrimonio e nascita» [Malinowski 1963, in Dino, 2008:46].

I rimandi simbolici che accompagnano le fasi di questo rito di passaggio (oggi molto ridimensionato) sono «strumenti attraverso cui scavare un solco profondo tra la vita precedente e la nuova condizione acquisita» [Dino, 2013:151].

Il singolo tende pertanto a identificarsi con il gruppo e la sua individualità tende a diventare identità collettiva: la “cosa” diventa “nostra”;

«è proprio grazie a questi processi di costruzione e strutturazione dell’identità di gruppo che l’organizzazione mafiosa riesce a fondare parte della legittimazione della propria autorità; un’autorità che finisce col proporsi come interprete dell’unica forma di giustizia riconosciuta e valida: quella divina […]. Cosa Nostra diventa il luogo in cui si può mediare il rapporto con la religione e con Dio, perché il capomafia si considera o viene considerato una diretta emanazione del divino» [Ivi, p. 71-73].

Di fronte alle frequenti professioni di fede è facile allora interrogarsi su come sia possibile conciliare una scelta di vita contrassegnata dal crimine e dalla violenza con la pratica religiosa. In una deposizione raccolta dal giudice Pietro Grasso di un collaboratore di giustizia che aveva confessato quasi un centinaio di omicidi, alla domanda “come può un mafioso dichiararsi cattolico osservante?” esso rispose “Signor giudice, le giuro sulla testa dei miei figli: non ho mai ucciso nessuno per un mio interesse personale, sono stato sempre comandato”. Una giustificazione che fa comprendere come un giuramento di appartenenza possa rendere un uomo un automa privo di qualsiasi principio etico, un soldato in perennemente guerra [cfr. Grasso, 2013].

Sarebbe riduttivo limitarsi a parlare di un’interpretazione personalistica e distorta della religiosità, più proficuo è invece ipotizzare un sincretismo di modelli culturali e una contaminazione tra orientamenti valoriali che, pur in contraddizione formale, riescono a convivere fornendo modelli d’identificazione [cfr. Dino, 2013]. In Sicilia gli storici della Chiesa individuano la presenza, con alterne vicende fino agli anni Cinquanta del Novecento, di una forma di “cattolicesimo municipale”, basato su un modello di solidarietà limitata e su una concezione confessionale e conservatrice del potere politico.

Non è casuale che le cerimonie religiose abbiano finito col trasformarsi in momenti funzionali alla riaffermazione della coesione del gruppo municipale, in un rituale che prevede la rappresentazione di un sistema sociale nel cui ordine prevalgono i vincoli di parentela e di sangue, i legami associativi e simbolico-affettivi. Come affermato da Stabile, questo cattolicesimo municipale sarebbe «non soltanto una religione civile che forza il cristianesimo a diventare supporto alla socializzazione del potere politico, ma una esperienza e organizzazione religiosa che rimane chiusa nella dimensione localistica e particolaristica del municipio» [Stabile, 1996:15-16].

Da ciò, spiega sempre Stabile, si è radicata una commistione tra civile e religioso che collega interessi economici, familiari e amministrativi. «Se nel passato la commistione tra sacro e profano, religioso e municipale, è stata capillare e la Chiesa ha spesso assunto posizioni d’inconsapevole complicità o di disattenta quiescenza, anche oggi, di fronte ad una più diffusa sensibilità sociale nei confronti del fenomeno mafioso e a un controverso processo di secolarizzazione, feste e rituali religiosi continuano a esercitare forte attrazione per chi, dentro i contesti mafiosi, cerca legittimazione e consenso ai propri comportamenti. Ne sono testimonianza i tanti episodi di cui la cronaca dà notizia nei quali – in forme più o meno eclatanti – importanti esponenti mafiosi (indifferentemente appartenenti al mondo di Cosa nostra, della ’Ndrangheta o della Camorra) gestiscono processioni e feste religiose o esibiscono un ostentato cerimoniale sacro durante funerali, battesimi e matrimoni» [Dino, 2013:153]

Giorgio Adamo esprime la sua preoccupazione nei confronti dei rischi dell’equivoco che che sta emergendo in questi anni, soprattutto in Calabria: la consolidazione dell’equazione “devozione popolare = ’Ndrangheta”, aggiungendo che nonostante la devozione giochi un ruolo significativo all’interno delle organizzazioni mafiose, da ciò non deriva necessariamente che i devoti siano mafiosi [cfr. Adamo, 2013]. Se il rapporto tra gerarchie ecclesiastiche e devozione popolare è un rapporto complesso, ambivalente e localmente molto differenziato, il rapporto tra devozione popolare e ’Ndrangheta è decisamente più sfuggente dove entrano in gioco da un lato sia i ruoli di appartenenti a ’ndrinelocali nell’organizzazione e nella gestione ad esempio di un festa (come la decisione di chi deve portare la statua nel corso di una processione), sia quel rapporto su cui si viene a costituire un terreno condiviso in termini di valori, simboli e consuetudini, appartenenti per lo più a un comune mondo contadino di origine, ma di per sé non necessariamente criminosi o criminogeni [ibidem].

«Da osservatore e studioso di fenomeni e comportamenti culturali, temo sia errato e rischioso sostituire, all’analisi e alla comprensione di complesse dinamiche culturali che affondano le radici in vicende secolari e che a tutt’oggi appaiono ben lontane dall’essere chiarite, semplificazioni schematiche, di facile presa massmediatica. La questione dei rapporti tra devozione popolare, cultura “tradizionale” e cultura della ’Ndrangheta è un tema di grande rilievo, con profonde implicazioni sul piano antropologico, sociale e politico, e come tale andrebbe affrontato» [Ivi, P. 97-98].

Tale riflessione ovviamente non è prerogativa di un’analisi riservata alla singola organizzazione criminale, come può essere quella citata, ma è allargabile e applicabile alla criminalità di stampo mafioso in generale, non solo italiane, ne è un esempio il culto della Santa Muerte associato ai narcotrafficanti messicani:a partire dalla fine degli anni ’90 tutte le notizie più scioccanti della cronaca nazionale messicana sono sottolineate dalla presenza della santa; nei covi e nelle abitazioni di alcuni dei maggiori esponenti della criminalità e del narcotraffico venivano infatti solitamente rinvenuti altari e immagini ad essa dedicati, ritrovamenti che le valsero l’attuale reputazione di “Santa dei Narcos”. Secondo uno studio americano, elaborato dall’Ufficio per gli Studi Militari Stranieri, il culto sembra associato proprio ai comportamenti devianti dove l’invocazione della morte incrementerebbe l’impatto dei comportamenti criminosi, ma non solo, alcuni esponenti delle bande usano questa immagine come collante sociale per il “branco” giustificando la violenza attraverso la religione [cfr. Lorusso, 2008]. 

Assolutamente importanti sono quindi quei momenti di confronto e approfondimento all’interno di un fenomeno che richiede più che mai studio e riflessione piuttosto che facili prese di posizione [cfr. Adamo, 2013].

 

Dario Bettati

Info

 

 

 

1 la processione con la statua della Madonna delle Grazie è accusata di effettuare una sosta, in senso di omaggio, di fronte all’abitazione del boss ottantaduenne Giuseppe Mazzagatti, condannato all’ergastolo e agli arresti domiciliari. A quel punto i Carabinieri presenti come di consueto tra le autorità in testa alla processione si allontanano dalla processione.

2 Una ‘ndrina è un termine gergale che indica una cosca malavitosa facente parte della ‘ndranghta, gestita da una singola famiglia, ossia un gruppo di membri consanguinei, che controlla un territorio specifico come un pese o un quartiere.

Bibliografia

Adamo, G., “ Il rapporto tra gerarchie ecclesiastiche e devozione popolare in Calabria”, inin Caliò, T., Ceci, L., (a cura di), L’immaginario devoto tra mafie e antimafie, Viella, Roma, 2013

Dino, A., La mafia devota, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008

Dino, A., “Religione, mafie, Chiese: un rapporto controverso tra devozione e secolarizzazione”, in Caliò, T., Ceci, L., (a cura di), L’immaginario devoto tra mafie e antimafie, Viella, Roma, 2013

Grasso, P., “Come può un mafioso dichiararsi cristiano?”, in Caliò, T., Ceci, L., (a cura di), L’immaginario devoto tra mafie e antimafie, Viella, Roma, 2013

Lorusso, F., Santa Muerte, Patrona dell’umanità, Stampa Alternativa, Viterbo, 2013

Merlino, R., “Papi, cupole e mandarini tardivi”, in Caliò, T., Ceci, L., (a cura di), L’immaginario devoto tra mafie e antimafie, Viella, Roma, 2013

Puccio-Den, D., “Di sangue e d’inchiostro. Vicolo mafioso e religiosità”, in Caliò, T., Ceci, L., (a cura di), L’immaginario devoto tra mafie e antimafie, Viella, Roma, 2013

Stabile, F., M., “Cattolicesimo siciliano e mafie”, in Synaxis XIV/1, 1996

Sitografia

http://mafie.blogautore.repubblica.it/2018/03/29/il-dio-dei-mafiosi/

https://www.lettera43.it/it/articoli/cronaca/2014/07/08/mafia-rapporti-tra-chiesa-e-criminali/121488/

https://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/inchiesta-italiana/2011/07/14/news/la_religione_dei_narcos_messicani_ultima_versione_delle_sette_estreme-18440756/

Videografia

Rai Storia – I mafiosi e la religione, Fagiolo, R.

Video di riferimento

Il camorrista, G. Tornatore, 1986 [estratto]

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